Capelli spettinati, disordinato, sornione, a volte goffo, quanto di più lontano dall’idea di perfezione e rigore, prima che esplodesse la pandemia, Johnson era riuscito – secondo molti inspiegabilmente – a convincere gli inglesi di essere l’uomo giusto per trascinare il Regno Unito fuori dall’Europa: un passaggio che gli consegna di diritto gli abiti del predestinato, al centro di un autentico crocevia della storia europea.
A complicare i piani, smorzando i toni trionfalistici di appena qualche mese fa, ci ha pensato il Covid 19 che sembra aver mescolato le carte in tavola. Era Il 31 gennaio quando la Gran Bretagna salutava formalmente la UE, anche se il periodo di transizione finirà solo il 31 dicembre.
Il Premier inglese non ne vuole sapere di un allungamento del “brodo” e, ribadisce ad ogni occasione utile, che Deal o no deal, sarà comunque Brexit.
Il tempo è poco, le incognite e i nodi da sciogliere tanti. Troppi. Risultato: la trattativa procede a rallenty mentre avanza a grandi passi il fantasma dell’uscita “hard”, lo scenario più temuto.
Fino ad oggi, Londra e Bruxelles hanno viaggiato su due binari paralleli: Uk vorrebbe un accordo di libero scambio stile Canada; la UE non ne vuole sapere. In particolare, si fatica a trovare un punto di incontro in materia di pesca e sul cosiddetto level playing field, ovvero la parità di condizioni a livello di concorrenza. Un vero e proprio pasticcio all’inglese.
Se, infatti, dopo essere stato colpito dal coronavirus ed essere finito in terapia intensiva, Johnson poteva contare su un tesoretto di “benevolenza” con i giorni si è totalmente dissolto e sono venuti a galla diversi aspetti critici, su tutti la confusione con la quale è stata gestita l’emergenza che ha pagato caro in termini di popolarità, fortemente in calo stando agli ultimi sondaggi. C’è poi un altro fattore tutt’altro che secondario: la maggioranza dei cittadini adesso è contraria a Brexit.
Oggi, esattamente, come nel 2016 la Gran Bretagna resta spaccata a metà tra il fronte pro-Ue e il fronte pro-Brexit.