Diversi sono gli elementi di forte preoccupazione rispetto ai nostri settori che emergono considerando le scelte fatte dal Presidente del Consiglio dei Ministri nella formazione del suo Governo, in particolare rispetto alla necessità di investire e rafforzare il ruolo dell’infrastruttura pubblica dell’alta formazione e della ricerca, che riteniamo essere una delle priorità per il nostro Paese. Le nostre preoccupazioni e valutazioni potranno certamente modificarsi e faremo la nostra parte rispetto al merito dei programmi e soprattutto alle azioni di questo prossimo Governo. La cautela è quindi d’obbligo in questa fase, a maggior ragione considerata la situazione determinata dall’emergenza sanitaria e dalle sfide che la pandemia ci consegna, a partire dall’utilizzo delle risorse del Recovery Plan e dalle riforme ad esso collegato, che saranno decisive per il prossimo futuro del Paese.
Ciò vale anche per il ministro della Pubblica Amministrazione, che verrà valutato dai fatti, ma il ministro della Pubblica Amministrazione Brunetta non ha lasciato un buon ricordo visto che il bilancio delle politiche che ha messo in atto nel suo precedente mandato da ministro della PA sta lì a dimostrarlo e, in quest’ottica, il fatto che il Presidente del Consiglio gli abbia affidato proprio lo stesso dicastero rappresenta in tutta evidenza un problema e un grave elemento di preoccupazione.
Forse proveranno a descriverlo come il ministro che ha messo in riga i lavoratori della pubblica amministrazione e che ha combattuto i furbetti del cartellino, ma la realtà dei fatti purtroppo è ben diversa. Ancora oggi sono evidenti gli effetti pratici dei tagli indiscriminati operati nei confronti di tutti i settori pubblici, che proprio l’odiosa campagna denigratoria messa in atto nei confronti del lavoro pubblico ha consentito di attuare, mettendo in secondo piano le responsabilità politiche delle scelte che si operavano.
Renato Brunetta è stato nominato da Draghi nuovo ministro della Pubblica amministrazione, succedendo a Fabiana Dadone.
Il 70enne prof. di Economia, forzista d’assalto, amico e confidente di Silvio Berlusconi, veneziano doc che ben due volte ha tentato la scalata a sindaco della sua città ma senza successo, vanta una formidabile formazione socialista, tanto da essere stato consigliere economico di Craxi, Amato e Ciampi.
Quando dal 2008 al 2011 ricoprì lo stesso incarico proprio nel primo Governo del Cavaliere, a dire il vero non riuscì a lasciare il segno più di tanto. Se non per via della – neanche tanto piccola ma assai poco efficace – rivoluzione nella pancia della PA, che mirava a “premiare i lavoratori meritevoli e punire i fannulloni”, per sua stessa affermazione; se fosse servito, anche con il licenziamento.
Una vera crociata contro i “furbetti” e tutti quei dipendenti pubblici, di ogni ordine e grado, scarsamente operosi, lontanissimi da target produttivi degni di nota, e a volte persino un po’ troppo lamentosi, lassisti e assenteisti: questo il Brunetta-pensiero.
Brunetta agì orchestrando la campagna denigratoria verso i lavoratori della P.A., additati all’opinione pubblica come responsabili dell’inefficienza e della scarsa qualità dei servizi: ciò ha preparato il terreno per imporre il blocco del turn over, il blocco delle retribuzioni e dei contratti nazionali di lavoro, il taglio del salario accessorio e la produzione di norme improntate ad una logica punitiva nei confronti di tutti i lavoratori della P.A. e di attacco al ruolo del sindacato e della contrattazione integrativa. Risulta ben evidente come rispetto ai provvedimenti adottati la lotta ai cosiddetti “furbetti del cartellino” centrasse ben poco!
C’è voluta la pandemia da covid19, undici anni dopo la legge 150/2009 (la cd legge Brunetta), per recuperare credito e rispetto dei lavoratori della P.A. nei confronti dell’opinione pubblica, che ha scoperto la professionalità e la dedizione di questi lavoratori e nel contempo che il vero problema della qualità e dell’efficienza dei servizi era dovuta dalla carenza di finanziamenti, di strutture e di personale: tutt’altra storia rispetto ai luoghi comuni che volevano i dipendenti pubblici essere fannulloni, troppi e pure troppo pagati.
La tanto discussa “Legge Brunetta” per la riforma della Pubblica amministrazione veniva approvata il 4 marzo 2009 e si inseriva nel quadro di un più ampio disegno di riforma che avrebbe dovuto portare a un cambiamento radicale nei rapporti tra PA, cittadini-utenti e imprese.
Obiettivo dichiarato, migliorare l’organizzazione del lavoro pubblico, assicurare il progressivo miglioramento della qualità delle prestazioni erogate al pubblico, ottenere adeguati livelli di produttività e riconoscere “finalmente” i meriti e i demeriti dei dirigenti pubblici e del personale tutto.
Per la prima volta nella storia della Repubblica italiana una legge approvata con un iter di appena 15 mesi tentava il rilancio dell’efficienza e della produttività economica del settore pubblico nel nostro Paese. Tema spinoso, per non dire incandescente, che attira storicamente le ire dei sindacati, e non solo.
La riforma Brunetta puntava a coinvolgere tutte le amministrazioni pubbliche, dopo essere stata ampiamente condivisa dalle autonomie territoriali. Sei i punti cardine su cui si basava.
Principio ispiratore della riforma, la trasparenza era intesa come accessibilità totale di tutte le informazioni su organizzazione, andamenti gestionali, utilizzo delle risorse per il perseguimento delle funzioni istituzionali e risultati, attività di misurazione e valutazione, per consentire forme di controllo interno ed esterno, anche da parte dei cittadini.
Ogni amministrazione avrebbe dovuto adottare un programma triennale per la trasparenza della performance e prevedere un’apposita pagina web sul programma di trasparenza e integrità.
L’asse della riforma Brunetta era l’attribuzione selettiva degli incentivi economici e di carriera, in modo da premiare i capaci e i meritevoli, invertendo la generale tendenza alla distribuzione a pioggia dei benefici che da decenni si verifica nella Pubblica amministrazione.
Il decreto fissava una serie di principi nuovi: non più di un quarto dei dipendenti di ciascuna amministrazione avrebbe potuto beneficiare del trattamento accessorio nella misura massima prevista dal contratto, non più della metà goderne in misura ridotta al 50%, mentre ai lavoratori meno meritevoli non sarebbe stato corrisposto alcun incentivo.
Inoltre venivano previste forme di incentivazione aggiuntive per le performance di eccellenza e per i progetti innovativi, criteri meritocratici per le progressioni economiche, l’accesso dei dipendenti migliori a percorsi di alta formazione.
Per la prima volta il cittadino veniva messo al centro della programmazione degli obiettivi, grazie alla customer satisfaction, alla trasparenza e alla rendicontazione, e si rafforzava il collegamento tra retribuzione e performance.
Per rafforzare la cultura della valutazione e della trasparenza nelle amministrazioni avrebbero dovuto essere create un’apposita Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità e vari organismi indipendenti di valutazione, in ciascuna amministrazione.
La Commissione avrebbe dovuto predisporre ogni anno una graduatoria di performance delle singole amministrazioni statali in base alla quale la contrattazione collettiva nazionale avrebbe dovuto ripartire le risorse, premiando le migliori strutture e alimentando una competizione che, agli occhi di Brunetta, sarebbe stata finalmente “sana”.
Il decreto si proponeva di dare vita a un processo di convergenza con il settore privato prevedendo che il dirigente, quale rappresentante del datore di lavoro pubblico, identificato in modo ampio nei cittadini utenti e nei contribuenti, fosse il responsabile della gestione delle risorse umane e della qualità e quantità del prodotto delle Pubbliche amministrazioni.
Anche qui si ponevano le basi per un legame forte tra contrattazione decentrata, valutazione e premialità: in particolare, veniva rafforzato, come per il settore privato, il condizionamento della contrattazione decentrata, e quindi della retribuzione accessoria, all’effettivo conseguimento di risultati programmati e di risparmi di gestione.
I dirigenti avrebbero dovuto essere i veri responsabili dell’attribuzione dei trattamenti economici accessori, proprio perché a loro competeva la valutazione della performance individuale di ciascun dipendente, secondo criteri certificati dal sistema di valutazione.
La nuova normativa valorizzava insomma la figura del dirigente, che avrebbe avuto a disposizione strumenti concreti per operare e sarebbe stato teoricamente sanzionabile, anche economicamente, qualora non avesse svolto efficacemente il suo lavoro.
Estensione dei poteri del dirigente, riduzione e perentorietà dei termini, potenziamento dell’istruttoria, abolizione dei collegi arbitrali di impugnazione e sanzioni per i casi di false attestazioni di presenze o di falsi certificati medici avrebbero completato il quadro di riforma.
Questa sarebbe stata la riforma Brunetta della PA, se appena quattro anni dopo non fosse arrivato Renzi al governo. Marianna Madia ha ribaltato tutto.
Ora che la revisione della macchina pubblica è una condicio per ottenere i miliardi del Recovery Plan, Draghi si affida, di nuovo, a Brunetta. Il neo premier si appresta a una manovra da 32 miliardi per affrontare le emergenze economiche dovute all’epidemia da Coronavirus in Italia: allo studio del governo ci sono soprattutto il testo del decreto Ristori 5, che nella pratica rappresenta uno scostamento di bilancio, l’integrazione degli aiuti a imprese e famiglie, il rifinanziamento della cassa integrazione e gli effetti del blocco dei licenziamenti.
Brunetta, sul suo tavolo, si troverà in primis il delicato dossier della regolamentazione dello smart working a cui la pandemia ha obbligato i dipendenti pubblici.
Una volta risolto il nodo del lavoro agile, è molto probabile che il neo ministro forzista rimetta mano al suo vecchio piano, portando avanti i punti di cui sopra, stavolta il più celermente possibile, per evitare che l’effetto novità nel pubblico svanisca in un soffio.