Prima di uscire di casa per l’ultima volta, il commissario Luigi Calabresi, ucciso il 17 maggio di 50 anni fa da Lotta Continua, aveva scambiato qualche parola con la moglie Gemma. “È venuto da me, aveva la sua giacca nera, i pantaloni grigi – ha detto la vedova Calabresi in un’intervista a La Stampa – ma prima di uscire si era cambiato la cravatta. Ne aveva una rosa di seta, ne ha messa una di lana bianca. E mi ha chiesto: ‘Come sto, così?’ Io gli ho risposto: ‘Bene, ma stavi bene anche prima’. E lui mi ha detto: ‘Sì, ma questo è il simbolo della mia purezza’. E queste sono le ultime parole che mi ha detto”. “In quel momento sono rimasta spiazzata – ha aggiunto la vedova Calabresi – ma non ho fatto a tempo a chiedergli perché mi diceva quello o che senso aveva. Lui era eternamente in ritardo ed era già uscito. Dopo ho capito: era il suo testamento. Come se avesse voluto dirmi: continueranno a calunniarmi, ma sappi che io sono puro e sono innocente”. Le minacce che incombevano sulla vita di Calabresi, dopo la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, la moglie le ha “scoperte soltanto dopo, certi giornali non li portava a casa e io li ho visti molti anni dopo. Poi io allora avevo i bambini, un daffare enorme, grazie al cielo, perché mi hanno tenuto la mente occupata, il cuore e il resto”. Per arrivare all’idea di perdonare, la vedova Calabresi ci ha “messo anni”. “Inizialmente lo facevo un po’ con la testa, poi ho capito che era tempo perso. Anche perché si scivolava indietro, bastava un articolo di giornale, una scritta che tornava sui muri, un documentario televisivo per cadere di nuovo nella rabbia. Poi ho capito che il perdono lo si dà solo con il cuore, non puoi prenderti in giro, il dono si fa con amore. Lo dice la parola, è un dono. Pianino pianino, lo devi fare, ogni giorno un pezzettino, lo devi volere, lo devi scegliere come vita. Io ci sono riuscita anche attraverso la fede”. “Improvvisamente mi sono detta che anche gli assassini di mio marito non potevano essere soltanto quello che erano stati nel momento in cui avevano ucciso o deciso di uccidere – ha aggiunto – .Ho pensato che dovevano essere anche padri buoni e affettuosi. E l’avevo visto al processo. Ho pensato che potevano aver aiutato tanta gente. E allora li ho separati da quell’atto” e “li ho resi completamente umani”. Quanto al procedimento per l’estradizione dalla Francia di Giorgio Pietrostefani, condannato con Adriano Sofri come mandante dell’omicidio del commissario Calabresi, che inizierà a Parigi il 18 maggio, la vedova prova un “senso di giustizia” perché “finalmente la Francia riconosca le sentenze italiane. Ed è importante: io il mio percorso l’ho iniziato dopo il processo in Italia. Dopo aver avuto verità a giustizia. Ma nello stesso tempo ho pensato a quell’uomo più anziano di me, ha 78 anni, ed è molto malato e mi chiedo che senso ha oggi toglierlo dalla sua famiglia e relegarlo in un carcere a finire i suoi giorni – ha concluso – . Sinceramente non mi sento di gioire”.
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