Una sorpresa annunciata. Si può definire con queste parole l’elezione del senatore di Ap, Salvatore Torrisi alla presidenza della commissione Affari costituzionali del Senato. Una scelta secca, al primo scrutinio, dove erano necessari 16 voti per l’elezione. Il candidato del Pd, anzi l’unico candidato in campo, visto che nel mattino una nota di Alternativa popolare aveva annunciato che non avrebbe proposto il nome di Torrisi ma avrebbe sostenuto la candidatura dem, Sergio Pagliari, che ha incassato soltanto 11 preferenze. A queste si aggiunge una scheda bianca. Su un totale di 28 senatori presenti su 30. A mancare erano i due esponenti di Ala, anche quella una mancanza annunciata, almeno per le prime due tornate di voto, con una nota del capogruppo Lucio Barani.
‘Quel che è avvenuto al Senato è un fatto grave che non può essere minimizzato’, ha detto Andrea Orlando, ministro della Giustizia e candidato alla segreteria del Pd, nella registrazione di Porta a porta.
Si è trattato, ha aggiunto riferendosi all’elezione del presidente della commissione Affari costituzionali, di una saldatura tra forze politiche che si collocano nella maggioranza e nell’opposizione. Senza una prospettiva chiara il partito rischia di diventare un punto di fibrillazione del sistema, ha aggiunto, sottolineando che senza un chiarimento si rischia che il sistema di alleanze si sgretoli.
A prescindere da ogni calcolo sulle schede, per il Pd si tratta di uno smacco politico di non poco conto, vista l’importanza della prima commissione, snodo di tutti i provvedimenti e in particolare delle riforme istituzionali, a cominciare dalla legge elettorale. Uno smacco su cui hanno contato svariate componenti.
Ma tutte previste, e temute, anche alla vigilia. L’imposizione del Pd di volere un proprio rappresentante alla guida della commissione, politicamente del tutto legittima visto anche il fatto che il presidente della commissione Affari costituzionali della camera è un centrista, si è scontrata con le difficoltà che una presa di posizione di questo tipo garantiva in sede di voto.
Che tra l’altro è a scrutinio segreto, giusto per moltipliare le insidie. Ben lo sapeva il presidente del gruppo, Luigi Zanda, che per lungo tempo aveva cercato di non proporre un braccio di ferro all’interno della maggioranza in commissione. Fino a ritenere preferibile un sostegno al presidente reggente in carica, Torrisi, uomo equilibrato e garantista, piuttosto che rischiare un flop nel voto. Una posizione, la sua, che ha indispettito il vertice del partito. Da qui l’accelerazione degli ultimi giorni, con il richiamo all’ordine di Zanda e la volontà di assicurarsi una posizione di rilievo e sicura, anche in vista dell’arrivo della legge elettorale.
Non è andata così. Nonostante la marcia indietro, quantomeno formale, di Ap nel segreto dell’urna si sono sbriciolate molte certezze. I conti sono difficili da fare, ma parlano di franchi tiratori della maggioranza: da 3 a 1.
A votare per Torrisi ci sono stati senz’altro i voti di Forza Italia (4), quelli del M5S (3), della Lega Nord (1), 2 voti del Misto (Si e Bruni ex Cor). Si aggiungono quelli Mdp (2), di Gal (2). Fanno 14. Poi si entra nel campo delle ipotesi: i restanti due voti che mancano all’appello possono essere quelli dello stesso Torrisi e l’altro di un esponente del gruppo Misto incerto fino all’ultimo momento. Ma anche di qualche franco tiratore del Pd, si vocifera in Transatlantico. Ma si tratta di voci così forti da costringere lo stesso Zanda a scendere in campo a denunciare manovre politiche sempre più volgari e ipocrite a cui si sono aggiunti, lo dicono i numeri, pezzi della maggioranza, ma certamente non del Pd.
Sul fronte della maggioranza a sostenere sulla carta la candidatura di Pagliari ci dovevano essere 8 voti del Pd, 2 di Ap (compreso quello dello stesso Torrisi), 2 di Autonomie, il voto di Manuela Repetti del Misto e quello di un’altro esponente del Misto. In totale 14 voti. Ad arrivare agli 11 realmente ottenuti da Pagliari ne mancano 3. Ecco che le indiscrezioni parlano di un voto, se non addirittura due voti in meno nel gruppo delle Autonomie.
Ci possono essere naturalmente compensazioni incrociate, mentre il computo ex post lascia il tempo che trova. Resta il dato politico, che ha immediatamente scatenato una reazione a catena molto più ampia della commissione, ma che potrebbe coinvolgere anche la maggioranza.
La reazione di Matteo Renzi e dei parlamentari a lui vicini è immediata e furente: ‘E’ un patto della conservazione tra M5s e FI, Mdp e Ap per non cambiare la legge elettorale’, accusano. E a stretto giro i vertici Dem chiedono un incontro al premier Paolo Gentiloni e al presidente Sergio Mattarella per un chiarimento politico.
E anche Andrea Orlando osserva che l’episodio può portare al voto anticipato. In serata, dopo un colloquio con Gentiloni, Angelino Alfano chiede a Torrisi di dimettersi per permettere l’elezione del candidato Pd. Poi il premier vede i vertici Dem e garantisce il suo impegno per la coesione della maggioranza. Ma la tensione è alle stelle, anche tra i Dem.
Dopo il referendum, ragionano i renziani, la legislatura si è sfilacciata, come dimostrano gli screzi con alfaniani e bersaniani, dal Def ai voucher, alla legge elettorale. A questo punto tra gli uomini vicini all’ex premier cresce la tentazione di sfidare i Cinque stelle per votare insieme in tempi brevi il Legalicum (cioè l’Italicum corretto, senza i capilista bloccati). A quel punto ci sarebbero le condizioni per chiudere la legislatura e andare al voto.
Per i Dem il voto ha un senso politico: dimostra che non c’è volontà di cambiare la legge elettorale, si vuole il proporzionale. ‘Si è superato il limite’, dice Luigi Zanda, nel mirino dei renziani per non aver saputo gestire la vicenda. A Gentiloni e Mattarella il Pd chiede un confronto e in serata Guerini e Orfini vanno a Palazzo Chigi. Tra premier e capo dello Stato nel pomeriggio ci sarebbero stati contatti ma al Quirinale reputano la richiesta di esser ricevuti irrituale.
Nel Pd è scontro. I sostenitori di Emiliano e di Orlando attaccano i renziani: ‘Il Pd rischia di diventare fattore di instabilità’, dice Gianni Cuperlo. E fa discutere una frase di Renzi in un’intervista a Panorama, che lascia intendere che lascerebbe la politica in caso di sconfitta alle elezioni. E’ ‘personalizzazione’? Il settimanale e l’ex premier: ‘Ho detto che sarei tornato alla politica solo con i voti. Non mollo e non mollerò mai’.
Cocis