“Assolutamente no. Amo la magistratura, la porto nel cuore. Conto di chiarire tutte le vicende che mi riguardano nella competente sede disciplinare. Sono stato sempre al servizio dei magistrati e intendo continuare a farlo”. Luca Palamara, pm a Roma, ora sospeso, al centro della bufera che ha travolto la magistratura per effetto dell’inchiesta di Perugia, ha risposto così, ospite di Porta a Porta, alla domanda di Bruno Vespa sulla sua intenzione di dimettersi per il rischio di essere ‘rimosso’ dalla magistratura.
Provo disagio e senso di angoscia non solo nei confronti delle persone comuni – continua Palamara – ma verso i tanti magistrati che ogni mattina si alzano per lavorare e sono totalmente estranei al sistema delle correnti. A tutti loro il sistema delle correnti deve chiedere scusa, a cominciare dal sottoscritto. E Le correnti esistono dagli anni 70 è organizzazione interna che i magistrati si sono dati. Nascono come fenomeno di pluralismo culturale ma nel corso del tempo sono diventati strumenti di potere. Tutto ciò che avviene nella magistratura passa attraverso le correnti. Si va al Csm se si è indicati dalle correnti, si va all’Anm se si è indicati dalle correnti”.
Formalmente – continua – c’è stato un cattivo funzionamento del trojan ma è un tema su cui spero di riuscire ad avere risposte, sul perché questo sia accaduto. Ho il massimo rispetto per l’attività degli inquirenti ma constato i fatti, che dicono che ci sono state anomalie sia nel funzionamento del trojan sia in una sorta di intermittenza del trojan stesso. Questo è tema oggetto delle riflessioni difensive, perché sia stato inserito solo al presunto corrotto e non a presunti corruttori, con i quali non avevo mai avuto rapporti.
Favori non ne ho mai fatti a nessuno, nella mia attività – assicura Palamara, replicando a Bruno Vespa che aveva fatto riferimento a un suo presunto favore a Matteo Renzi sull’archiviazione di una pratica a carico del procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, che aveva indagato su Banca Etruria e aveva una collaborazione col governo – sono sempre stato indipendente: ho incontrato esponenti della politica delle istituzioni, perché nella mia attività alla guida dell’Anm ho avuto contatti con tutti. Ritenevo che il lavoro di Rossi andasse tutelato – ha spiegato -. Sono sempre stato al servizio delle istanze dei colleghi.
Durante la consiliatura del Csm 2014-2018 – racconta La Verità – uno dei casi più scabrosi fu la pratica per incompatibilità ambientale che riguardava il procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, all’epoca titolare dell’inchiesta sul crac di Banca Etruria. Il procedimento – ricostruisce il quotidiano nel suo scoop – fu aperto quando si seppe che il magistrato era consulente del Dipartimento Affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi (era arrivato con Enrico Letta ed era stato confermato da Matteo Renzi). Rossi, spiega il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, aveva fatto parte della giunta esecutiva centrale dell’Anm quando Luca Palamara ne era presidente e il pm indagato a Perugia per corruzione, da vero amico, riuscì a far chiudere la pratica dopo una lunga battaglia. Le cose cambiarono, prosegue La Verità, quando Palamara lasciò il Csm. Nell’ottobre del 2018, infatti, il nuovo consiglio rinviò la sua conferma a procuratore. E, un anno dopo, con Piercamillo Davigo relatore, l’istanza venne bocciata. A raccontare come andarono realmente i fatti e lo scontro che si consumò nella penombra del Csm, secondo la versione de La Verità, è Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia. All’epoca, consigliere azzurro del Csm, Zanettin nella consiliatura precedente, aveva sollevato il problema del conflitto d’interessi di Rossi. La pratica Rossi è stato uno dei miei cavalli di battaglia, spiega Zanettin a La Verità. Chiesi io l’apertura del fascicolo – ricorda Zanettin – quando, nel dicembre 2015, uscì un’agenzia che svelava che Rossi, titolare dell’inchiesta sulla Popolare dell’Etruria, era ancora un consulente del governo. Noi lo chiamammo in Prima Commissione. Quella che si occupa di trasferimenti per incompatibilità. E lui ci disse che non conosceva la famiglia Boschi, svela Zanettin. Da qui la scelta di andare verso l’archiviazione. Demmo un parere favorevole all’archiviazione della pratica, racconta ancora Zanettin. Ma, a ridosso del plenum, venne fuori lo scoop su Panorama da cui apprendemmo che Rossi aveva indagato più volte Boschi. E che, quindi, non poteva non conoscerlo. E che a difenderlo era stato Giuseppe Fanfani. Che, in quel momento, era consigliere del Csm. Riaprimmo subito il caso. – ricorda Zanettin. – E Rossi ci venne a dire che non aveva capito la domanda. E che, comunque, non aveva conosciuto personalmente Boschi senior. Poi Zanettin, nel suo colloquio con la Verità, aggiunge un particolare. Dopo aver risentito Rossi giungemmo a una travagliatissima archiviazione. Si trattava di un’archiviazione ‘vestita’ nel senso che conteneva diversi rilievi. Ma Palamara e il suo gruppo fecero passare una serie di emendamenti in aula per cancellarli tutti. Io, alla fine – ricostruisce Zanettin – fui l’unico a votare contro l’archiviazione. Mentre i due relatori, Piergiorgio Morosini e Renato Balduzzi, e altri sette, si astennero perché erano state sbianchettate le critiche. Quanto ai rilievi cancellati, Zanettin rivela: ‘Avevamo evidenziato che Rossi, mentre era consulente di Palazzo Chigi, aveva tenuto per sé, senza condividerlo con altri colleghi come da buona prassi, il fascicolo sul crac della Popolare aretina. Un’inchiesta che avrebbe portato all’iscrizione sul registro degli indagati di Boschi senior. E di questi possibili profili di incompatibilità Rossi non aveva informato il Csm’. Palamara, interveniva sempre per difendere Rossi, chiosa Zanettin nel colloquio con la Verità. Litigai diverse volte con lui. In uno di questi scontri dissi a Palamara che lo proteggeva perché erano entrambi di Unicost. E lui si indignò rivendicando la sua autonomia. Ma oggi le chat mi danno ragione. Soprattutto laddove – scrive La Verità – Palamara afferma che anche se Rossi aveva fatto ‘cazzate su cazzate’, bisognava ‘salvarlo’…