Carlo Cottarelli, che rinunciò a Palazzo Chigi, non sarà capolista alle europee di Azione con +Europa ed altri

Carlo Cottarelli è  un super tecnico, che dal Fondo monetario ha messo il naso per 25 anni nei bilanci degli Stati di mezzo mondo;  è stato commissario alla spending review di un governo italiano, e poi fondatore di un Osservatorio sui conti pubblici; insomma un  fustigatore della politica economica del Paese.

Cottarelli è stato a un passo dal diventare presidente del Consiglio, nell’ora più pericolosa per la Repubblica dai tempi della crisi finanziaria del 2011. Realtà che racconta in un libro autobiografico (Dentro il Palazzo), dove racconta la  sua breve esperienza da senatore, mandato da cui si  dimise; e gli straordinari eventi che portarono il presidente Mattarella a dargli l’incarico di formare un governo dopo le elezioni del 2018, mandato che poi lui rimise

Il primo a proporgli di entrare in un governo fu Giuseppe Conte,  che fu poi chi prese il suo posto, facendo  il governo.  Luigi Di Maio, che allora guidava il Movimento, minacciò   l’ impeachment contro Mattarella proprio perché gli aveva dato l’incarico.

Prima delle elezioni i Cinque Stelle, favoriti nei sondaggi, volevano presentare agli elettori un governo precostituito e contattarono  Cottarelli,   invitandolo al Caffè Greco a Roma,  portandogli un messaggio di Di Maio: «Mi sembrava non arrivasse mai al punto», racconta Cottarelli di questo avvocato, «sinceramente non ricordo nulla di quanto mi disse… Non fui particolarmente colpito se non per la sua prolissità». Conte gli offre il posto di ministro dell’economia nel prossimo governo. Lui  risponde: «No grazie, non sono d’accordo con la vostra politica di bilancio» (poi ci provò anche Berlusconi, che addirittura annunciò in tv di aver arruolato Cottarelli, il quale però non ne sapeva niente, e niente ne volle sapere).

Arrivano le elezioni e i Cinque Stelle sono il primo partito. La Lega il terzo. Si mettono insieme scegliendo come premier Conte, che si presenta da Mattarella con la lista dei ministri. Al Tesoro, dove avrebbero voluto Cottarelli,  c’è Paolo Savona.  Vera antinomia. Tanto europeista Cottarelli quanto euroscettico Savona, che voleva uscire dall’euro. Mattarella, che per Costituzione ha il potere di nominare i ministri, non accetta Savona, e invita i gialloverdi a cambiare cavallo. Di Maio e Salvini rifiutano. Lo spread prende il volo. Caos totale. A quel punto il Quirinale fa la mossa del cavallo. Convoca Cottarelli e gli dice: guidi lei un governo tecnico, composto da personalità indipendenti che s’impegnino a non candidarsi alle prossime elezioni. Se avrà la fiducia va avanti fino a fine anno, per la legge di Bilancio, e poi si dimette. Se non l’avrà, sciolgo le Camere e lei gestirà le immediate elezioni.

Catapultato al vertice ella politica romana si ritrova a  scegliere tredici ministri e un sottosegretario alla presidenza. ci mette poco. Tutti i partiti si sfilano, e sembra chiaro che la fiducia non l’avrà, i mercati impazziscono: si va alle elezioni, di fatto un referendum sull’euro. Fuga di capitali, crollo in Borsa, spread che nel giro di poche ore schizza di quasi 100 punti fino a quota 320.

Così, Cottarelli torna al Quirinale:  un governo senza la fiducia non può gestire questa crisi, qui in un niente arriviamo a 1.000 di spread. È lui stesso che suggerisce di riprovare con i due dioscuri gialli e verdi: che cambino Savona al Tesoro e facciano un governo politico.

Finì  così. La crisi del 2018 fu forse il punto più basso dell’impazzimento del sistema politico italiano.  Uscendo dal Quirinale, dopo aver rimesso il mandato, Mattarella gli disse: «La Repubblica è in debito verso di lei».

Carlo Cottarelli doveva essere oggi candidato come capolista in un progetto Azione con +Europa ed altri, ma non se ne farà  niente. Dopo aver dato la disponibilità a guidare la coalizione dei partiti centristi – con il caveat di vederli uniti in un progetto – ha preso atto della incompatibilità dei soggetti e rinunciato alla candidatura: “La lista di scopo un’occasione sprecata, Calenda e Renzi divisi da personalismi torno nelle scuole a parlare di democrazia”

D’altronde il professore, economista della Cattolica di Milano, ha sempre detto di non essere un uomo per tutte le stagioni e  ha deciso di dedicarsi alla pedagogia della politica: pagandosi tutti i viaggi da solo, gira le scuole di ogni periferia d’Italia per incontrare gli studenti ai quali parlare di democrazia, Costituzione, economia e lavoro.

Salvo sorprese dell’ultimo momento, con l’attuale assetto dell’area liberaldemocratica, la sua candidatura è esclusa: «Io mi sento più vicino a Azione e +Europa, avrei voluto vedere insieme Calenda e Emma Bonino. Speravo potessero superare le divergenze. Magari anche con Renzi, ma sembra non si riescano a capire. Pazienza. E peccato. Bisogna vedere la questione dall’interno, non le so dire perché il progetto unitario della lista di scopo non riesca a partire, non le so dire torti e ragioni. Lo spirito giusto è capire che non possiamo tornare indietro su tanti temi: i diritti civili, il rapporto cittadino-istituzioni. E l’Europa è la dimensione con la quale il cittadino oggi deve fare i conti. Per ora le guerre stanno avendo un impatto limitato sulla nostra economia. Le borse di tutto il mondo stanno andando abbastanza bene e prevale l’ottimismo legato al tasso al taglio dei tassi di interesse che ormai sembra imminente e alla riduzione dei tassi a lungo termine che già avvenuta e che spiega anche in parte la riduzione dello spread in Italia. Speriamo si arrivi alla pace in Ucraina e in Medio Oriente, più per il rispetto della vita umana che per le preoccupazioni dei mercati. Lo scenario ha due prospettive. In Europa, se da un lato non sembra emergere un parlamento a maggioranza sovranista, è chiaro che la parte sovranista, di quelli che vogliono meno Europa, probabilmente guadagnerà consenso. Poi ci sono gli Stati Uniti. Per l’Europa un nuovo mandato di Trump sarebbe un bel problema, con la sua posizione isolazionista e antagonista dell’Europa, sul piano strategico-militare ma anche commerciale. Con Trump potrebbero salire i dazi sulle importazioni dall’Europa. La soluzione a quello che sta succedendo in Ucraina sta nel dare a Kiev tutto il sostegno possibile. Al tempo stesso, a un certo punto bisognerà arrivare a un tavolo di negoziati per arrivare a una pace accettabile. Il rischio dell’escalation c’è, per ora solo nei toni. Quando parliamo di boom parliamo prima di tutto della produzione: non c’è dubbio che dopo il covid abbiamo avuto una ripresa un po’ più forte della media europea e anche negli ultimi dati stiamo crescendo nel 2023. Siamo cresciuti un po’ più della media europea: la crescita del PIL – che è quello che si produce e quello che si distribuisce – è anche il reddito medio, è quello aumentato grosso modo dello 0,9% nel 2023. In Europa si è fatto lo 0,7, quindi siamo cresciuti un po’ più della media. Bene ma non è una cosa eccezionale. Spagna e Portogallo crescono sopra al 2%, loro vanno davvero bene. Chi va male è la Germania. Apparentemente c’è la crescita dell’occupazione perché aumenta il numero di occupati. Se però mettiamo insieme i due dati di Pil e occupazione ci accorgiamo di una cosa che non è tanto bella: lavoriamo di più, però la spinta sulla produzione non è molto elevata. C’è molta più crescita dell’occupazione che della produzione. Il che vuol dire che stiamo riducendo il prodotto per lavoratore o in altri termini, stiamo creando posti di lavoro che sono a basso livello di produttività, di valore aggiunto. In parte non sono davvero nuovi posti di lavoro ma l’emersione di lavori in nero dopo l’eliminazione del reddito di cittadinanza. Era lavoro in nero, adesso emerge. Certamente. Questa performance di crescita del Pil che abbiamo avuto negli ultimi anni è portata anche dalla marea di soldi che ci sono stati dati dalle istituzioni europee. Prima dalla Banca Centrale Europea, poi da Next Generetion Eu. Abbiamo ricevuto al 2020 al 2022 qualcosa come 300 miliardi di euro dalla BCE. E poi ci sono quasi duecento miliardi del Pnrr. Una bella differenza rispetto a prima. Sì, salvo che è intervenuto un meccanismo che è quello dell’inflazione. Ci ha consentito nonostante tutte queste spese un rapporto debito pubblico/ Pil abbastanza contenuto. Oggi al 137%, non molto più alto del 135% pre-Covid. Sa come mai abbiamo fatto queste spese, queste montagne di deficit e il debito pubblico non è aumentato molto? Perché l’inflazione del 2021, 2022 e in parte 2023 ha eroso il valore dei titoli di Stato in circolazione. È stata una tassa nascosta sui detentori direttamente o indirettamente di debito pubblico. Molte famiglie italiane ci hanno perso, è stata una tassa nascosta. Adesso c’è un altro effetto: alcune di quelle spese, già registrate nel deficit – il Supebonus 110% e gli altri bonus edilizi – avranno un impatto di cassa nei prossimi anni. E questo crea un problema per l’andamento futuro del rapporto tra debito pubblico e PIL. Per alcune di queste spese il conto non è stato ancora pagato. Se guardiamo al reddito medio degli italiani, quello si è già ripreso: il rapporto tra reddito medio e i prezzi, cioè il reddito medio in termini reali ha già superato il valore del 2019. Quello che è cambiato è la distribuzione del reddito. Nel 2021 e 2022 i prezzi sono aumentati più dei salari. Questo si sta pian piano correggendo, adesso i salari medi stanno crescendo più dell’inflazione, però ci vuole un po’ di tempo perché questo perché si torni sui livelli del 2023. Siamo tornati al livello del 2019 per quasi tutti i prodotti. In teoria i prezzi dei prodotti al supermercato dovrebbero scendere. Siccome nella realtà non scendono quasi mai, bisogna aspettare che siano invece i salari a recuperare. Il futuro dipende da quello che facciamo. Bisogna impegnarci tutti per fare di questo Paese un posto dove fare attività di impresa, rimboccarsi le maniche, tirare fuori le idee e investire».

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