Le aziende farmaceutiche fanno fatica a tirar fuori dai trial clinici un prodotto vincente. Dopo avere analizzato 80 sperimentazioni di nuovi analgesici per il dolore neuropatico condotte tra il 1990 e il 2013, un gruppo di ricercatori canadesi ha consegnato alle pagine della rivista ‘Pain’ una spiegazione che loro stessi non si aspettavano di trovare, ovvero che l’effetto placebo negli ultimi 25 anni è diventato sempre più potente riuscendo a calmare il dolore tanto quanto, o poco meno, del vero medicinale. Molecole che hanno brillantemente superato la fase preclinica e i primi due livelli di quella clinica non riescono a passare l’ultima prova decisiva, quella che gli aprirebbe le porte del mercato, ovvero la fase 3, dove la superiorità sul prodotto concorrente deve essere dimostrata su migliaia di pazienti. Questo particolare fenomeno riguarda solamente gli Stati Uniti. I placebo made in USA sembrano avere ‘superpoteri’ sconosciuti a chi conduce protocolli sperimentali in Europa, in Asia o altrove. Nel 1996 i pazienti americani dichiaravano che il beneficio del farmaco superava quello del placebo del 27 per cento, mentre oggi il distacco è precipitato al 9 per cento. Così, molti farmaci testati anni fa faticherebbero a passare l’esame se dovessero ripetere l’iter dei controlli ai nostri tempi. Jeffrey Mogil del ‘Pain Genetic Lab della McGill University di Montreal’, principale autore dello studio, e i suoi colleghi hanno fatto un paio di ipotesi. Negli USA, unico caso al mondo insieme alla Nuova Zelanda, è consentito pubblicizzare le medicine. I consumatori hanno quindi sviluppato negli anni un atteggiamento ottimistico nei confronti di questi prodotti e sono già in partenza ben disposti verso chi glieli propone. Gli americani fanno poi le cose in grande, i loro trial sono imponenti, durano a lungo, coinvolgono moltissime persone e reclutano personale sanitario altamente professionale. Basta aggiungere un logo accattivante per dare l’idea di funzionare molto bene facendo crescere le aspettative dei pazienti, elemento chiave per aumentare la risposta al placebo. La beffa per le farmaceutiche fa capire che più i trial sono costosi, estesi e lunghi, più cresce l’effetto placebo, minori sono le possibilità che le nuove medicine superino il confronto. In realtà l’aumento dell’effetto placebo negli ultimi anni era già stato constato in alcuni studi sul dolore neuropatico e sulla depressione, commenta Fabrizio Benedetti, professore ordinario di Neurofisiologia e Fisiologia Umana all’Università degli Studi di Torino e all’Istituto Nazionale di Neuroscienze, autore del libro ‘L’effetto placebo. Breve viaggio tra mente e corpo’ pubblicato da Carocci. Gli studi a cui fa riferimento Benedetti sono due, entrambi pubblicati su Neurology, uno nel 2005 e uno nel 2008. Già allora gli autori segnalavano alla comunità scientifica il ‘problema placebo’. L’aspettativa dei pazienti di provare una riduzione del dolore è una delle componenti principali della risposta al placebo. Molti studi hanno dimostrato che se si riduce intenzionalmente l’aspettativa dei pazienti si può ridurre la risposta al placebo. Un neuroscienziato vorrà sfruttare le conoscenze sul placebo per indagare il rapporto tra mente, corpo e cervello. Quella che per alcuni è una semplice pillola di zucchero diventa una miniera di informazioni di neurofisiologia da non lasciarsi sfuggire. L’effetto placebo è un eccellente modello per comprendere come funziona il nostro cervello, a partire dalla modulazione dell’ansia ai meccanismi di ricompensa, e dalla genetica all’apprendimento sociale. È per questo che i neuroscienziati da qualche tempo a questa parte hanno cominciato a chiedersi cosa accade nel cervello di un paziente che assume la ‘finta pillola’, cercando di capire come mai la semplice aspettativa di miglioramento riesca a farlo star meglio veramente. Il placebo ha effetti antidolorifici se viene accompagnato da parole suggestive e gesti incoraggianti perché atteggiamenti di questo tipo riescono a stimolare il rilascio nel cervello di oppioidi endogeni, soprattutto endorfine, sostanze con poteri simili a quelli della morfina, noto analgesico. Le evidenze scientifiche di questo processo arrivarono da uno studio pubblicato su ‘The Lancet’ nel lontano 1978 che segnò un punto di svolta nelle ricerche sul placebo. Usando un farmaco che bloccava le sostanze oppioidi endogene nel cervello, il naloxone, il potere analgesico del placebo scompariva. Nasceva allora un nuovo corso di studi sulla ‘falsa cura’ e la risposta al placebo non poteva più essere considerata esclusivamente psicologica dettata dalla suggestione e confinata a livello corticale del cervello, ma diventava, agli occhi degli scienziati, un fenomeno neurofisiologico oggettivamente misurabile che coinvolge le aree subcorticali del cervello. Un placebo non è la sola acqua e zucchero, bensì l’intero contesto psicosociale intorno al paziente. Ciò che conta non è quindi l’acqua o lo zucchero che vengono somministrati, ma ciò che il medico dice al paziente, inducendo aspettative di beneficio oppure, con le parole sbagliate, per esempio di una diagnosi negativa aspettative, di peggioramento, spiega Benedetti riferendosi al cosiddetto ‘effetto nocebo’. Le parole e i gesti del personale sanitario, gli odori dei farmaci, la vista dei dispositivi medici, possono veramente fare la differenza. Grazie alle tecniche di bioimmagine come la risonanza magnetica nucleare, o la tomografia a emissione di positroni si è riusciti svelare i meccanismi interni dell’effetto placebo, o, più correttamente, degli effetti placebo visto che i processi responsabili sono vari. Se un medico comunica al paziente che gli verrà somministrato un farmaco per aumentare la secrezione dell’ormone della crescita, per quanto convincenti possano essere le sue parole il placebo non avrà alcun effetto. Se invece, spiega Benedetti, si somministra per vari giorni consecutivi un farmaco che fa aumentare l’ormone della crescita e per una volta lo si sostituisce con un placebo, si ottiene lo stesso effetto del farmaco vero. Tutto ciò è dovuto all’apprendimento inconscio. Per alcuni tipi di placebo non è necessario quindi che il paziente abbia fiducia in chi lo cura.
Clementina Viscardi