C’era una volta…la Democrazia

C’era una volta, tanti anni fa in un mondo in cui la vita sembrava avere ancora una prospettiva conoscibile, la politica.  Tutti potevano sentirsi “partecipi” perché le strutture che le persone si erano date (i partiti) erano appunto quello che promettevano con il loro nome: rappresentanza di parte.

Ognuno, per motivi vari che potevano essere sociali, familiari, culturali, ideali, trovava una propria collocazione e “spingeva” per convincere gli altri che i motivi che lo portavano ad avere una tale “visione” (che poi diveniva “rappresentanza”) erano quelli non solo più giusti ma anche i migliori. Non erano interessi “generali”, ma interpretazioni di come il proprio interesse particolare offrisse al mondo un modo complessivo di funzionamento che sarebbe stato, alla fine, interesse di tutti.

Era la base della politica nata all’interno dello schema liberale della società, quello in cui i rappresentanti politici rappresentavano in un luogo deputato (il Parlamento) la voce dei loro rappresentati e, discutendo, “parlando”, dovevano trovare un punto di equilibrio, un interesse maggioritario.

In quello schema (quello liberale) i governi dovevano rendere “concreto” quella decisione maturata nell’aula della rappresentanza politica del paese e restare fedeli ai suoi indirizzi. Nessun governo doveva e poteva “arrogarsi” il diritto di decidere cosa fosse necessario per il bene collettivo. Quello spettava al Parlamento e ai rappresentanti eletti dal popolo. La magistratura, invece, solo interessata ad intervenire, con sanzioni, verso chi non rispettasse le leggi e la polizia a rendere concreta tale funzione. D’altronde, la cosiddetta e invocata “rivoluzione liberale” avrebbe dovuto scongiurare proprio la forma del potere che era nata per affossare definitivamente: quella dell’uomo solo al comando (o di una élite).

Quel mondo apparentemente “perfetto” e invocato dai più, però, necessitava di alcuni cardini che nelle società svanivano alla stessa velocità con cui, nel mondo, le persone si connettevano, si scambiavano sempre più velocemente, informazioni, merci, usanze e anche “potere”. I confini delle nazioni (quelle delimitazioni territoriali figlie della storia dei poteri precedenti) pur essendo ancora apparentemente “potenti” nell’immaginario collettivo, devenivano progressivamente dei lacci non più utili, il mondo del commercio diveniva uno, la comunicazione globale ci faceva diventare cittadini del mondo (sempre sbilanciato da interessi di parte, si, ma sempre più uno)  i meccanismi decisionali passavano dai parlamenti nazionali ad entità sempre più invisibili e senza rappresentatività, spesso sconosciute ai più (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio e poi le entità sovranazionali come il G5, G7, il G8, il G20, i parlamenti sovranazionali come quello Europeo e tutta la costruzione tecnocratica del suo potere).

Fu quello il momento in cui, invece di mettere in discussione gli aspetti illiberali del nuovo potere globale (assetti, cioè, che rompevano la tripartizione del potere figlia della rivoluzione liberale) si cominciarono a teorizzare delle “modifiche sostanziali” allo schema liberale. Forse per inseguire la velocità e la complessità delle nuove forme del potere concreto e provare a dare rappresentanza ad interessi territoriali all’interno di quelle strutture del nuovo potere.

La rivoluzione auspicata da Montesquieu, quella della fine delle monarchie assolute (quelle dell’uomo solo al comando) con l’istaurazione di una forma spezzettata delle funzioni del potere in una società (quella legislativa, quella esecutiva e quella giudiziaria), veniva ad ingranare “la marcia indietro”, con proposte sempre più esplicite di affidare ad una persona il diritto/dovere di governare come una sorta di antico monarca. Rimaneva la “forma” apparentemente democratica della scelta, ma la sostanza della rivoluzione liberale (quella del valore autonomo dell’individuo nei confronti dello stato, figlio anche della modernità) veniva cestinata. È la stagione in cui si cominciò a parlare di “presidenzialismo”, di “governabilità”, di “riforme” che, nella sostanza, riducevano il ruolo dei parlamenti a favore di quello degli esecutivi, in una logica che si avvicinava sempre più a quella del ripristino di un sovrano, di un uomo solo al comando (talvolta ancora “obbligatoriamente” plurale).  Le riforme “maggioritarie” dei sistemi elettorali “mascherano” l’incapacità dello schema di rappresentanza popolare e di parlamentarismo, consegnando alle comunità la possibilità di scegliere non la rappresentanza di idee ma di persone, in una logica che ha rimodellato la articolazione del potere al massimo tra due élites che si scontrano tra loro e al loro interno. D’altronde, sono passati ancora pochi decenni da quella vecchia storia e, nel DNA sociale, è ancora forte quell’immagine, quello schema.

Fu quella l’era della crisi di quell’idea di democrazia uscita dalla Storia come superamento di una forma di potere che impediva agli individui di ricercare la propria libertà e realizzazione. Fu la crisi dell’idea rendere “concreta” la forma del potere affidata al popolo attraverso i suoi rappresentanti.

C’era una volta la democrazia. Non era una cosa perfetta, certo, ma aveva provato a portare le persone a manifestare il proprio diritto a esprimersi sul potere e le sue scelte. Oggi, al massimo, misuriamo gli ascolti dei talk show o i like su qualche post per verificare il consenso “immediato” sull’ultima esternazione di turno e indirizzare le scelte di governo.

Sergio Bellucci

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