Cesare Damiano: ‘Il futuro dell’occupazione in Italia? Le imprese hanno un ruolo centrale’

Mismatch, ossia il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro, forte consistenza dell’impiego saltuario o precario, a tempo o in part time, livello insoddisfacente delle retribuzioni. Sono le principali problematiche relative all’occupazione oggi in Italia: come affrontarle? Sotto il profilo del potere d’acquisto, è necessario rendere strutturale la diminuzione del cuneo fiscale, detassare gli aumenti salariali per i contratti rinnovati alle scadenze naturali, adottare il salario minimo, a partire da quei settori, come la platform economy, che non hanno, in alcuni casi, un contratto di lavoro di riferimento. Per quanto riguarda la stabilità dell’impiego, far costare strutturalmente di meno i rapporti stabili e di più quelli flessibili. Per il mismatch, bisogna partire dalla scuola. In tutti i casi, le imprese devono fare la loro parte…

In Italia, a partire dal 2020, l’occupazione segna un trend positivo e si parla addirittura di record. Nel 2023 il saldo segna un più 500mila occupati nello stock del mercato del lavoro. Se parliamo di record, uno è rappresentato dal fatto che il numero complessivo di lavoratori dipendenti e autonomi ha toccato la soglia dei 23 milioni e 700mila; l’altro è rappresentato dal fatto che – nuovo record dagli anni 70 – il tasso di occupazione è arrivato al 61,9%.

Tutto bene, dunque?

Se esaminiamo questi dati con maggiore attenzione non possiamo non rilevare che a questa crescita quantitativa non corrisponde una analoga crescita qualitativa, né un incremento della produttività, né un incremento del Pil. A proposito del quale possiamo ricordare che la Nadef, su cui è costruita la legge di Bilancio per il 2024, ha previsto una crescita dell’1,2% che non sarà possibile raggiungere. I dati della Banca d’Italia e dell’Ocse prevedono una cifra inscritta in un range tra lo 0,6 e lo 0,9%.

Quindi, non è tutto oro quel che riluce.

Esaminiamo, perciò, come si compone il nostro mercato del lavoro e quali sono le problematiche per il futuro dell’occupazione.

Intanto, è, ormai, in primo piano il tema del mismatch. Vale a dire del disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Le imprese non sono in grado di reperire la manodopera che servirebbe per svolgere determinate funzioni, soprattutto di carattere più specializzato, in particolare, in campo operaio.

Un secondo problema è la forte consistenza dell’impiego saltuario o precario, a tempo o in part time. I dati forniti dall’Istat mostrano un andamento ondulatorio, nel quale il lavoro a tempo indeterminato avanza, come è avvenuto nell’ultima fase, per poi arretrare e viceversa. Ma, purtroppo, la tendenza di fondo è una forte persistenza di rapporti saltuari, nonché sottopagati. Uno stato delle cose che spinge a una sorta di ritiro verso il non-studio e il non-lavoro. Ciò, sicuramente, sfavorisce la formazione delle professionalità che, poi, mancano nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro.

Un terzo problema è il livello insoddisfacente delle retribuzioni. Situazione certificata dai dati del Rapporto Inapp 2023 secondo i quali, dal 1991 a oggi, in Italia crescono dell’1% a fronte di una media del 32,5% nell’area Ocse.

Come affrontare, dunque, questi problemi?

Sotto il profilo del potere d’acquisto la soluzione è quella di muoversi in tre direzioni. La prima è rendere strutturale la diminuzione del cuneo fiscale. La seconda è la detassazione degli aumenti salariali per i contratti rinnovati alle scadenze naturali. La terza è l’adozione del salario minimo, a partire da quei settori, come la platform economy, che non hanno, in alcuni casi, un contratto di lavoro di riferimento. Ciò, anche al fine di spingere tali settori ad adottarne uno: ad esempio, quello della logistica per i rider.

Per quanto riguarda la stabilità dell’impiego, si deve proseguire su una strada che sostengo fin da quando ero ministro del Lavoro: far costare strutturalmente di meno i rapporti stabili e di più quelli flessibili. Ho sempre ritenuto il lavoro interinale uno strumento utile nel mercato del lavoro perché riconosce questo elemento di scambio. Una saltuarietà, disegnata su misura per l’impresa, nell’utilizzo del lavoratore. Ma a un costo decisamente superiore rispetto a quello normale. La cosa peggiore è, invece, ancorare su un solo lato, quello dell’impresa, due vantaggi: avere a disposizione il lavoratore attraverso la flessibilità, ma addirittura ad un costo minore di quello di un dipendente stabile.

Nel merito del punto relativo al mismatch, è chiaro che bisogna partire dalla scuola. Nel senso che è evidente che si deve sostenere l’implementazione e l’equiparazione, anche da un punto di vista sociale, della formazione tecnica, degli Itt, gli Istituti tecnici tecnologici e degli Its, gli Istituti tecnici superiori. Favorire quei fattori di orientamento nelle scuole superiori che chiariscano il nesso tra formazione e richieste del mercato del lavoro nelle nuove professioni. Va sostenuto l’utilizzo dell’apprendistato duale di alta formazione sperimentato in alcune grandi imprese, nel quale si raggiunge l’obiettivo di avere, da una parte, il mantenimento del livello di studio e di apprendimento caratteristico di un sistema scolastico colto ed evoluto e, al tempo stesso, la pratica dell’attività futura all’interno dell’impresa che adotta questi lavoratori. Ciò, in cambio di un corrispettivo salariale che sia, appunto, riconducibile all’apprendistato.

È evidente che la migrazione verso altri Paesi dei giovani maggiormente formati, diplomati o laureati con le risorse pubbliche e il sostegno delle famiglie, certifica questo deficit della bilancia del mercato del lavoro a svantaggio dell’Italia, proprio perché nel nostro Paese non si trova più, nel lavoro, una sufficiente corrispondenza alle aspettative.

Qui nascono altri interrogativi. Come le imprese, per aiutare il superamento del mismatch possano offrire non solo una maggiore stabilità del lavoro, non solo una equa retribuzione, ma anche condizioni di conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro che siano adeguati alle richieste di libertà delle giovani generazioni. Da notare che quelle che vengono etichettate come “grandi dimissioni” derivano dal fatto che è maggiormente sentita nei giovani l’esigenza di una migliore collocazione professionale. A questa domanda bisogna rispondere, ad esempio, con una serie di profili contrattuali nuovi. Come la settimana di quattro giorni a parità di salario che può portare a una crescita, come certificato, della produttività. L’adozione nelle nuove organizzazioni del lavoro di quote ragionevoli di smart working che, da un lato, portano tutti i vantaggi che sappiamo, evitando, dall’altro, che producano un negativo isolamento del lavoratore dal contesto aziendale. Quindi, non confondere lo smart working con il lavoro da remoto o il telelavoro, perché sono cose profondamente diverse.

È di rilievo l’adozione contrattuale di erogazioni di welfare aziendale nei contratti di secondo livello che favoriscano la produttività e diano, indirettamente, maggiore salario e maggiori benefici. Questo, anche attraverso un’evoluzione sia dei piani sanitari e pensionistici, mediante i fondi contrattuali, sia attraverso iniziative di welfare aziendale, che includano nei benefici non solo il lavoratore, ma anche il suo nucleo familiare. Ad esempio, con una rosa di possibilità che tocchi i nodi fragili delle famiglie, che sono la tutela dei figli come dei congiunti anziani. Tali benefici devono essere indirizzati non solo ai lavoratori a tempo indeterminato, ma anche a quelli attivi in uno stato di instabilità contrattuale. Allargare, insomma, la sfera della protezione e della tutela nella logica di un welfare pubblico e privato alleato e maggiormente inclusivo.

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