«Ci si è, con scarsi risultati, aggrappati per un lunghissimo periodo alla pretesa neoclassica di una supposta razionalità dell’homo oeconomicus e a rappresentare l’economia in termini di sola efficienza. Questa prospettiva ha generato l’orientamento di contrabbandare l’efficienza come sinonimo di razionalità, costruendo un mondo ideale in cui i soggetti economici si comportano come se fossero sempre razionali.
Ha assunto una eccessiva centralità l’economicismo, per il quale il principale oggetto di studio dell’economia è l’efficienza individuale e collettiva. A livello del singolo individuo, secondo questa impostazione, ogni soggetto è un agente economico razionale ed egoista in ogni àmbito decisionale così che il suo comportamento è di per sé efficiente, mentre a livello sociale si è riposta la fiducia nella mano invisibile del mercato, ossia nella certezza che il libero interagire delle transazioni, coordinate dal mercato, conduca naturalmente a risultati efficienti. Una visione eccessivamente semplicistica e fuori dalla realtà, che è ben più complessa.
In questa realtà, infatti, entrano con un ruolo dirompente, da un lato, la questione energetica e, dall’altro, la contraddizione indotta dalla innovazione tecnologica assurta a fattore di competizione esasperata, che rende insicuro il profitto degli investimenti produttivi e spinge, in America come in Europa o in Italia, inevitabilmente alla finanziarizzazione delle imprese.
In un’epoca di globalizzazione degli scambi, di internazionalizzazione dei mercati finanziari, di ampliamento del ruolo e della dimensione delle imprese multinazionali, di scandali e corruzioni, il mercato non è più il regolatore sovrano al quale possa essere affidato lo sviluppo delle società e delle nazioni. Questa perdita di ruolo della razionalità capitalistica spiega il fallimento dei piani di sviluppo economico, l’allontanamento dalla piena occupazione soprattutto nelle società europee, la impossibilità di regolare mercati borsistici e azionari nonostante la messa a punto di sempre più complessi strumenti normativi, la incapacità di assicurare una perfetta informazione agli operatori economici.
Le ambiguità del mercato e delle organizzazioni, la insufficiente definizione delle regole, la proliferazione di relazioni aziendali e interaziendali ambigue e opportunistiche, l’interazione personale diretta, le asimmetrie informative ed il fatto che gli operatori nelle loro decisioni valutino poche alternative, sono i principali fattori che spiegano i fallimenti dei quali siamo stati testimoni.
Il rimanere pervicacemente ancorati a modelli teorici formalmente perfetti, ma superati, il ricercare interpretazioni sul funzionamento dell’economia all’interno di paradigmi classici e neoclassici possono servire soltanto a salvaguardare le cittadelle mummificate dei soloni dell’economia ufficiale e a tutelare il diritto dinastico all’interno di corporazioni alla deriva in un mondo che non solo esse non riescono a interpretare, ma neanche a comprendere nelle sue strutture più elementari.
La ricerca di un nuovo modello di sviluppo dovrebbe essere il compito, oggi, della scienza economica: un modello che non sia rigidamente ancorato alla misurazione di indici quantitativi spesso inesatti (forse perché sono inadeguate le procedure di rilevazione di fenomeni come l’inflazione, il sommerso e così via) o a indicatori esclusivamente quantitativi come il Prodotto interno lordo, la produttività pro capite, il numero di ore lavorate. Essi devono essere affiancati da altri indicatori ai quali conferire centralità e rilevanza, come la qualità degli spostamenti nelle città, il degrado urbano e ambientale, il livello di soddisfazione rispetto al proprio lavoro e alle proprie competenze e ruoli professionali, la consistenza e la conservazione del patrimonio artistico e culturale, il grado di ospitalità delle strutture turistiche, la qualità dell’istruzione, gli indici relativi alla sicurezza, la qualità delle prestazioni di welfare e dei servizi pubblici, le disuguaglianze del reddito, la crescente incidenza delle vecchie e nuove povertà, il grado di solidarietà e di integrazione sociale. In diversi settori (dal turismo all’arte, dalla qualità dell’accoglienza alla tradizione enogastronomica, dalla bellezza del paesaggio al piacere del vivere in Italia) i nuovi indicatori spingerebbero il nostro Paese verso importanti primati rispetto ad altri paesi europei ed extra-europei e potrebbero fungere da guida per le future scelte strategiche del sistema economico nazionale».