Cosa cambierebbe nell’esperienza delle mostre se, da domani, fosse vietato l’uso dei cellulari? Artisti, curatori, critici d’arte, studiosi, nessuno sfugge ormai al mondo dei social media che sempre di più definiscono spazi altri in cui continuiamo a interagire e relazionarci. La loro evoluzione ha inciso radicalmente anche sul modo in cui l’arte viene fruita e, nello specifico, su come le mostre vengono affrontate. Piatteforme quali Instagram e TikTok, grazie alla loro immediatezza visiva e alle accattivanti strategie narrative, svolgono oggi un ruolo cruciale nella diffusione, promozione e presentazione delle esposizioni, offrendone un’anteprima attraverso la condivisione di immagini curate, storie, video e altri contenuti.
Una volta che la mostra inaugura, soprattutto se ha guadagnato notorietà grazie a vari fattori – tra cui anche efficaci campagne di comunicazione sui social – quella stessa anteprima si intensifica per mano dei visitatori traducendosi in un’esplosione di contenuti che, se da un lato permette di superare le barriere geografiche e temporali, restituendo l’atmosfera di momenti espositivi diversamente invisitabili, dall’altro può comportare la quasi completa condivisione di quanto esposto. La prima impressione di un’opera o di un’esposizione avviene perciò, spesso, attraverso lo schermo di uno smartphone, riducendo l’elemento sorpresa ma, soprattutto, creando specifiche aspettative.
Una performatività del corpo che diviene parte dell’esperienza stessa, con il conseguente rischio di una percezione più superficiale
I social network e le mostre d’arte
Si provi adesso a indossare i panni delle prime persone che visitano la mostra. La drammaturgia del fotografare, filmare e poi postare incide significativamente anche sulle modalità con cui si fruiscono le esposizioni. Il cellulare diviene una protesi fisica e visiva, determinando il nostro comportamento nello spazio: ci ritroviamo con le braccia più o meno tese per scattare foto, lo sguardo concentrato sullo schermo per controllare l’inquadratura o rivolto alla fotocamera per fare selfie, ancora, a fare giravolte per le giuste riprese di un video, di una storia o di un reel. Insomma, una performatività del corpo che diviene parte dell’esperienza stessa, con il conseguente rischio di una percezione più superficiale e una maggior attenzione alle opere che appaiono più efficaci sullo schermo. Ma è anche questa stessa drammaturgia a rappresentare un incentivo per visitare una mostra, un desiderio di presenzialismo – un’affermazione del “ci sono o ci sono stato!” – così come l’opportunità di costruire e rafforzare una particolare immagine personale.
Sarebbe sicuramente interessante, nella probabile impossibilità di portare a termine il compito, tentare di condurre uno studio su come, quali e quante immagini condivise dal pubblico circolino liberamente sul web. Si tratta, infatti, di fotografie spesso ritagliate, ingrandite, filtrate e modificate che possono differire significativamente dall’originale e talvolta stravolgere l’intenzione stessa dell’artista, raggiungendo una totale autonomia. Tuttavia, più un’opera o una mostra si presta alla condivisione sui social, maggiori sembrano essere le sue possibilità di successo, un aspetto che può arrivare a incidere sia sulle programmazioni espositive che sulla progettazione degli allestimenti. Gli stessi artisti ne sono sempre più consapevoli, il che solleva interrogativi su come e quanto l’attrattiva di essere instagrammabile possa influenzare anche la produzione artistica.
La recente mostra Oltre la soglia di Leandro Erlich, tenutasi da aprile a ottobre 2023 a Palazzo Reale a Milano, ha presentato installazioni site-specific complesse, palazzi dove i visitatori potevano arrampicarsi virtualmente e case che apparivano sospese in aria; tutte opere che, giocando con la realtà e modificando la percezione dello spazio, stimolavano i visitatori a scattarsi fotografie, trasformando la mostra in un fenomeno social. Diversamente vi sono molte opere che sono state create ben prima dell’era dei social media ma che oggi vi trionfano. Nemmeno lontanamente destinate ad avere successo su queste piattaforme, sono state concepite come installazioni ambientali e partecipative ottenendo nel tempo un grande successo mediatico: è il caso delle Infinity Room di Yayoi Kusama, create a partire dagli anni Sessanta o la più recente Upside Down Mushroom Room di Carsten Höller realizzata nel 2000 e oggi uno dei punti di forza dell’allestimento della Fondazione Prada di Milano. Tornare indietro è impossibile, e non si possono certo negare gli enormi vantaggi che i social media hanno portato in termini di visibilità e accessibilità nell’arte. Appare però fondamentale mantenere un approccio critico e consapevole, così che l’esperienza culturale non venga (troppo) compromessa dall’influenza pervasiva dei social media.
Fonte Giulia Zompa
Pubblicato su Artribune Magazine