Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Barbara Lalle le sue considerazioni sullo spettacolo ‘Dieci piccoli indiani’ messo in scena al Teatro Brancaccio di Roma.
Con le tre recite di ‘Dieci piccoli indiani…e non ne rimase nessuno’, il Teatro Brancaccio di Roma prosegue la sua programmazione portando a casa, venerdì 20 Aprile, un bel sold out, per la prima della pièce tratta dall’omonimo romanzo, capolavoro di Agatha Christie, pubblicato nel 1939 dalla giallista britannica.
La regia dello spagnolo Ricard Reguant, che arriva a Roma dopo aver ottenuto un enorme successo a Madrid ed a Barcellona, è fedele al finale del romanzo che. nell’adattamento teatrale del 1943 curato dalla stessa Christie, era stato cambiato offrendo una versione più rispondente ai canoni del giallo classico. Siamo negli affascinanti anni ’40 e lo stile è quello art decò. I personaggi, i dieci piccoli indiani del titolo, pur incarnando i tipici stereotipi sociali dell’epoca, sono ben delineati e indagati nella loro psicologia che emerge progressivamente nello sviluppo drammatico della trama. Interessante ricordare brevemente le vicissitudini del titolo dell’opera, che ha avuto fin dalla prima pubblicazione una storia travagliata. Il titolo originale, Dieci piccoli negri, derivato direttamente da una popolare filastrocca per bambini, fu cambiato nella prima edizione americana del 1939, quando la parola ‘negro’ aveva ormai definitivamente assunto negli Stati Uniti una connotazione dispregiativa, in Dieci piccoli indiani. Nei decenni successivi, e quasi sempre nelle edizioni moderne del romanzo, si è spesso preferito E non ne rimase nessuno come titolo unico. In questo adattamento teatrale, la filastrocca che fa da contrappunto alla storia, recita invece dieci piccoli ‘soldatini’.
Il primo elemento da sottolineare è il sonoro: battute che si sentono a malapena accanto ad altre quasi urlate con un effetto non propriamente gradevole. Questi forti sbalzi di volume sono ovviamente voluti; sembrano indicare allo spettatore i momenti di culmine drammatico. Un espediente di regia, forse anche per compensare la compressione spaziale di una trama particolarmente dinamica, in cui gli spazi esterni rivestono un ruolo significativo, in un unico ambiente. La voce registrata del signor Owen, l’ospite invisibile che ha riunito i dieci personaggi nell’isola, e la filastrocca che ha dato il titolo all’opera e si ripete ossessivamente per tutta la storia, fungono da trama sonora. La scenografia di Alessandro Chiti collabora alla sottolineatura drammatica con l’uso di toni di colore molto accesi che percorrono alcuni arredi di scena nei momenti clou della trama. Ancora una volta l’effetto non è del tutto piacevole e sembra anche fuori posto. L’ambiente in cui si svolge tutta l’azione, l’ampio ingresso-soggiorno-sala da pranzo della villa, ha un enorme sviluppo in verticale che rimpicciolisce gli attori e non trasmette l’atmosfera di una casa privata. Non trasmette neanche il senso di claustrofobia che incombe progressivamente su personaggi e spettatori man mano che la realtà del pericolo senza via di scampo diventa sempre più concreta. E la pressione psicologica di questa claustrofobia è un elemento essenziale del fascino che la storia di Agatha Christie esercita da quasi ottant’anni. Che dire degli attori? Bravi, tutti quanti, da Giulia Morgani (Sig.ra Rogers)aPierluigi Corallo (Sig. Rogers),
da Caterina Misasi (Vera Claytorn) a Pietro Bontempo (Cpt. Lombard), da Leonardo Sbragia (Antony Marston) a Mattia Sbragia (Blore), da Ivana Monti (Emily Brent) a Luciano Virgilio (Giudice Wargrave), da Alarico Salaroli (Generale Mckenzie) a Carlo Simoni (Dott.Armstrong).
I dubbi sulle soluzioni scelte per risolvere gli evidenti problemi che un romanzo come ‘Dieci piccoli indiani’ pone nell’adattamento teatrale restano. La cosa migliore di questo adattamento sono sicuramente gli attori, particolarmente abili nel calarsi nei ruoli sociali ma anche nella psicologia profonda dei propri personaggi. La cosa meno convincente è la regia.