Considerazioni di Barbara Lalle su ‘Miseria&Nobiltà’, con la regia di Michele Sinisi, messa in scena al Teatro Vascello di Roma

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Barbara Lalle le sue considerazioni su ‘Miseria e Nobiltà’ messo in  scena al teatro Vascello di Roma.

 

Se avete ancora una possibilità, andate a vedere una delle repliche finali di Miseria e Nobiltà di Edoardo Scarpetta, nella messinscena di Michele Sinisi. Diversi possono essere i motivi per farlo. Anzitutto è un atto di coraggio, di omaggio e di confronto con l’archetipo: la gloriosa tradizione della drammaturgia partenopea e del teatro di Scarpetta e De Filippo.

E’ anche in stretta connessione con la cinematografia e con la versione per il grande schermo realizzata da Mario Mattoli, il regista che nel 1954 diresse il film con celebrità come Totò, Sophia Loren, Valeria Moriconi. Misurarsi con il passato significa operare un collegamento con il presente analizzando quel che ancora è rimasto, trasformandosi, di un immaginario collettivo e di quel tessuto social-culturale.

Non mancano i riferimenti espliciti e apparentemente fuori contesto a uno dei grandi classici del principe della risata, la lettera che Totò, con Peppino De Filippo, scrive in ‘Totò, Peppino e la malafemmina’. Accanto a Totò, appare e scompare Troisi, chiamato per nome a dissolvere ogni dubbio sul riconoscimento delle citazioni.

Le scene caratteristiche del film e la rappresentazione di un’epoca del nostalgico passato, riemergono dalla nostra memoria. La pièce, allestita con una compagnia di undici attori di alto livello e con produzione Elsinor, rievoca le maschere di Scarpetta, la farsa e la commedia. Un amore osteggiato e una beffa dettati da una ingenuità e da una umanità che è andata persa nello scorrere del tempo e degli eventi storici dal dopoguerra in poi passando il boom economico e la Dolce Vita, il ’68, gli anni di piombo e il fenomeno yuppies degli anni ’80, fino alla ‘generazione millenials’.

Sinisi intercetta la luce come se provenisse da un’altra dimensione, viaggiando nello spazio interstellare e nel tempo. Si instaura così un rapporto diretto tra la memoria degli spettatori e la narrazione del racconto. Il sipario si apre con le luci ancora accese in sala. La scenografia è minimalista ed essenziale, qualcuno entra per accendere un fornelletto a gas da campeggio, posizionato al centro della scena. Man mano che la fiamma si accende, si spengono le luci in teatro.

Lo scrivano Felice Sciosciammocca e il suo amico Pasquale vivono di espedienti e alla giornata, accomunati da una condizione di povertà e di fame. I due amici e le loro famiglie vengono assoldati dal marchesino Eugenio affinché si fingano suoi nobili parenti al cospetto del futuro suocero, al fine di strappargli il consenso per il matrimonio con la sua figlia.

Miseria e Nobiltà è un allestimento contemporaneo, gli attori indossano abiti da periferia: felpe, stivaletti, leggins. I diversi dialetti in cui recitano rappresentano la stessa miseria culturale di provenienze e regioni d’Italia diverse. I costumi di scena indicano chiaramente le caratteristiche delle due protagoniste: giovani donne superbe e disperate. Realtà, suggestioni e finzione si mescolano in un gioco di contrasti nella messinscena di Sinisi.

Sinisi porta il suo Miseria e Nobiltà ai giorni nostri.  Don Felice e Don Pasquale, interpretati rispettivamente da Gianni D’Addario e Ciro Masella, vivono in un luogo che ricorda gli ambienti urbani e periferici. La recitazione dei due principali attori maschili è notevole, regalano al pubblico due personaggi nuovi e autentici discostandosi dagli interpreti classici. Si perde la connotazione meridionale e napoletana per creare una compagine con tutta la vasta gamma dei dialetti italiani.  Luisella, compagna di Don Felice, interpretata da Stefania Medri, è una sarta che parla in veneto, la Donna Concetta di Diletta Acquaviva è una pugliese sboccata che sbaglia le parole quando cerca di parlare italiano. Don Gioacchino, il proprietario di casa, ha l’accetto milanese. Il regista Sinisi è spesso in scena: accende e spegne le luci, interviene e interpreta alcuni ruoli, dirige e, coadiuvato dai macchinisti, modifica e trasforma la scenografia.

La scena della prima parte, tetra e povera, con i personaggi in tute usurate, maglie logore e ornate con etichette e scritte didascaliche, cede il posto alla sorpresa, all’immaginazione, nella seconda parte dello spettacolo. Un telo bianco cade sul palco. La casa lugubre scompare per lasciare posto ad uno spazio indefinito. L’allestimento ideato e realizzato dallo scenografo Federico Biancalani comunica l’ostentazione di una fastosità apparente e al tempo stesso la potenza del sogno e della fantasia, dove un lampadario lussuoso è in realtà costruito con mestoli di legno.

Don Pasquale e Don Felice hanno appena accettato la proposta del Marchesino Eugenio, per far credere con l’inganno al padre della sua fidanzata Gemma, Gaetano Semmolone, che la nobile famiglia del Marchesino accetterà il matrimonio tra i due giovani.  Il comparire del cuoco, Michele Sinisi, coincide con un cambio di ambientazione nella scena in cui getta sul telo un groviglio di spaghetti, sul quale l’intera famiglia si avventa. Il racconto comincia a sfumare la sua struttura, per diventare più astratto. Non si sta più guardando Miseria e Nobiltà, ma qualcosa di più, l’epica del teatro fatto di miseria metafisica e miserie umane, ma anche di ricchezza e di mitologia, dove il pubblico rivive e interpreta i miti che vede in scena. Quella che esce dal teatro è una platea che applaude a scena aperta e che ha ritrovato se stessa in una felice rielaborazione di identità culturale, gioco, memoria collettiva. Il finale che ci regalai Sinisi, come quello di ogni tempo,  è lieto come Don Felice che ritorna alla miseria della sua condizione, ma non si lamenta, perché  a lui in fondo basta soltanto di sapere che ‘il pubblico è contento’.

Barbara Lalle

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