Il detenuto per un reato di mafia può essere “premiato” se collabora con la giustizia ma non può essere “punito” ulteriormente – negandogli benefici riconosciuti a tutti – se non collabora. In questo caso, la presunzione di pericolosità resta ma non in modo assoluto perché può essere superata se il magistrato di sorveglianza ha acquisito elementi tali da escludere che il detenuto abbia ancora collegamenti con l’associazione criminale. Queste le motivazioni con cui la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 4 bis, primo comma, dell’ordinamento penitenziario.
L’incostituzionalità della norma – derivante dal contrasto con i principi di ragionevolezza e della funzione rieducativa della pena (articoli 3 e 27 della Costituzione) – è stata estesa a tutti i reati compresi nel primo comma dell’articolo 4 bis, oltre a quelli di associazione mafiosa e di “contesto mafioso”, anche puniti con pena diversa dall’ergastolo.
Prima della dichiarazione di incostituzionalità, la disposizione censurata presumeva che la mancata collaborazione con la giustizia dopo la condanna per certi delitti dimostrasse in modo inequivocabile la persistenza di rapporti con la criminalità organizzata. Questa presunzione era assoluta, nel senso che poteva essere superata soltanto dalla collaborazione stessa. Sulla base di questa disciplina, la richiesta del detenuto non collaborante di ottenere i benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario (nella fattispecie, il permesso premio) non poteva mai essere valutata in concreto dal magistrato di sorveglianza, ma doveva essere dichiarata inammissibile.
Ora la sentenza sottolinea che non è la presunzione in sé ma la sua assolutezza ad essere in contrasto con la Costituzione.
Mentre non è irragionevole presumere che il condannato non collaborante non abbia rescisso i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, lo è invece impedire che quella presunzione sia superata da elementi diversi dalla collaborazione.