Grazie ai due principali giornali statunitensi, il Washington Post e il New York Times, i servizi si sicurezza hanno potuto spingere alle dimissioni il più stretto collaboratore di Donald Trump, il consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, che si era arrogato il diritto di ostacolare la politica estera del suo paese quando il suo capo era solo il presidente eletto mentre Barack Obama era ancora in carica.
Questa prospettiva è tanto più rassicurante se pensiamo che allo stesso tempo una giustizia indipendente ha sospeso l’applicazione del decreto presidenziale con cui Trump voleva vietare l’accesso negli Stati Uniti a persone provviste di visti o permessi di soggiorno in regola, solo perché provenienti da paesi a maggioranza musulmana.
Gli Stati Uniti non sono la Cina né la Russia o la Turchia. Sono un paese dove vige lo stato di diritto e un presidente non può fare come gli pare solo perché eletto dalla maggioranza.
Le dimissioni di Flynn e le dichiarazioni del portavoce della Casa Bianca, compresa quella secondo cui la Russia deve ‘restituire la Crimea’, mostrano che la campagna promossa a Washington contro la Russia è ben lungi dall’essere fermata.
In precedenza il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer aveva detto che Trump si aspetta che la Russia si impegni nella de-escalation del conflitto in Ucraina e nella restituzione della Crimea. Spicer ha anche osservato che la politica di sanzioni degli Stati Uniti contro la Russia resta invariata.
Durante la campagna elettorale Trump aveva dichiarato che, se eletto presidente, avrebbe preso in considerazione il riconoscimento della Crimea russa e la revoca delle sanzioni contro Mosca.
Su un altro fronte il governo britannico ha respinto la petizione che chiedeva la cancellazione dell’invito rivolto a Donald Trump per una visita di Stato nel Regno Unito. Secondo il ‘Foreign Office’, l’invito che la premier Theresa May ha rivolto al presidente Usa in occasione della sua visita alla Casa Bianca dovrebbe essere confermato. La petizione verrà discussa in Parlamento lunedì insieme ad un’altra petizione di segno opposto che chiede la conferma della visita di Stato. Che potrebbe svolgersi fra agosto e fine settembre, con il parlamento britannico chiuso per ferie. Donald Trump, invitato a tamburo battente dalla premier Theresa May subito all’indomani della sua elezione, si è recata negli Usa il 26 gennaio scorso ribadendo la sua vicinanza a Donald Trump davanti a deputati e senatori repubblicani, ma sottolineando anche le differenze con il presidente statunitense.
Riguardo al nostro Paese Flavio Briatore ha dato una mano a Matteo Renzi a ricucire il filo del dialogo con Donald Trump. Renzi e il presidente americano si erano già sentiti il 10 novembre, all’indomani delle elezioni americane. Il segretario del Pd era ancora premier. La telefonata fu breve e, secondo il resoconto di Palazzo Chigi, ebbe come argomenti principali l’importanza strategica dell’alleanza tra Italia e Stati Uniti e la volontà di lavorare insieme in vista della prossima presidenza italiana del G7 nel 2017. Nella sostanza, un colloquio di cortesia e di felicitazioni per il successo elettorale.
Renzi non aveva nascosto la sua preferenza per Hillary Clinton. In poche settimane è cambiato tutto: ‘Prima la rivoluzione Trump poi la sconfitta del referendum del 4 dicembre in Italia’. Ma Renzi, anche dopo l’uscita da Palazzo Chigi, non ha rinunciato a tenere i contatti con i grandi del mondo conosciuti nei mille giorni di governo. E anche con chi è arrivato, soprattutto se è il capo del ‘mondo libero.
Da ‘semplice’ segretario del Pd però ha avuto bisogno di un ambasciatore e lo ha individuato in Briatore, il miglior amico italiano di Trump. ‘Sì, si sono parlati, ho creato io il canale’, dice Briatore.
Cocis