Un’Antologia di Spoon River ‘riscritta’ da Enzo Moscato, il cimitero sulla collina che diventa Partenope, sterminato obitorio cittadino creatosi dopo l’ennesima eruzione del Vesuvio, danno vita a Raccogliere & Bruciare (Ingresso a Spentaluce), frammenti dall’opera di Edgar Lee Masters tradotti in napoletano e ricodificati dal drammaturgo partenopeo, in scena da mercoledì 21 marzo, alle ore 21.00 (repliche fino a domenica 25) sul palcoscenico del Teatro Nuovo di Napoli.
Presentato da Compagnia Teatrale Enzo Moscato/Casa del Contemporaneo, lo spettacolo vede in scena con Moscato, anche regista dell’originale drammaturgia, un ricchissimo cast, composto da Giuseppe Affinito, Massimo Andrei, Benedetto Casillo, Salvatore Chiantone, Gino Curcione, Enza Di Blasio, Caterina Di Matteo, Cristina Donadio, Tina Femiano, Gino Grossi, Amelia Longobardi, Ivana Maione, Vincenza Modica, Rita Montes, Anita Mosca, Enzo Moscato, Francesco Moscato, Luca Trezza, Imma Villa.
L’allestimento è impreziosito dalle installazioni di Mimmo Paladino, le luci di Cesare Accetta, le musiche originali di scena di Enza Di Blasio, i costumi di Daniela Salernitano.
Portare sulla scena, dopo averla imbrattata qua e là di lingua e di suoni napoletani, scrive Enzo Moscato in una sua nota, l’incredibile Antologia di Spoon River, capolavoro di Edgar Lee Masters tale da aver già rappresentato oggetto di studio e adattamento di autori italiani come Cesare Pavese, Fernanda Pivano e Fabrizio De André è sempre stato un mio obiettivo. Ho scelto alcuni dei frammenti dell’opera originale, componendoli dopo un lavoro, non continuativo, durato parecchi anni”.
Neapolis diventa Spentaluce, cenere e lapilli dopo l’ultima eruzione del Vesuvio, ed Enzo Moscato tradisce, inventa, ma conserva, raccoglie e plasma, come un demiurgo ispirato, l’Antologia di Spoon River.
Un’operazione audace e intensa, in cui la cultura partenopea diviene filtro per quella anglosassone nella tensione di un Novecento italiano-europeo irrisolto che si proietta nella contemporaneità.
Moscato trascina il numeroso gruppo di attori, li dirige come fossero musicisti verso una dimensione corale autentica, cui lo spettatore è, probabilmente, poco abituato. Li fa agire in un cimitero, tra l’onirico e il materico, che palpita e si ribella e ritorna come un’espiazione, in un teatro fatto di strati di conoscenza, libero e in continua evoluzione.
La lingua è quella napoletana, piena e corrosiva, che diviene immediatamente un altro personaggio, in una coralità di voci ‘raccolte’ e poi ‘bruciate’ nel passaggio amato e devastante che è il teatro.
Raccogliere & Bruciare (Ingresso a Spentaluce) di Enzo Moscato
Napoli, Teatro Nuovo – da mercoledì 21 a domenica 25 marzo 2018
Inizio spettacoli ore 21.00 (mercoledì, giovedì e sabato), ore 18.30 (venerdì e domenica)
Info e prenotazioni al numero 0814976267 email botteghino@teatronuovonapoli.it
Da mercoledì 21 a domenica 25 marzo 2018
Napoli, Teatro Nuovo
Compagnia Teatrale Enzo Moscato/Casa del Contemporaneo
presentano
Raccogliere & Bruciare
(Ingresso a Spentaluce)
testi e regia Enzo Moscato
installazioni Mimmo Paladino
assistente alla regia Angelo Laurino
luci Cesare Accetta
musiche originali di scena Enza Di Blasio
ricerche musicali Teresa Di Monaco
costumi Daniela Salernitano
trucco Vincenzo Cucchiara
con
Giuseppe Affinito, Massimo Andrei, Benedetto Casillo, Salvatore Chiantone
Gino Curcione, Enza Di Blasio, Caterina Di Matteo, Cristina Donadio
Tina Femiano, Gino Grossi, Amelia Longobardi, Ivana Maione
Vincenza Modica, Rita Montes, Anita Mosca, Enzo Moscato
Francesco Moscato, Luca Trezza, Imma Villa
e con la partecipazione di:
Maria Pia Affinito, Oscar e Isabel Guitto, Isabella Mosca Lamounier
organizzazione Claudio Affinito
durata della rappresentazione 110’ circa, senza intervallo
Tra Spoon River e Neapolis – la greca
(qualche nota a proposito della messa in scena di ‘Raccogliere & Bruciare’)
‘Se si guarda non troppo distrattamente alla proposta scenica contenuta in ‘Raccogliere & Bruciare’ (ennesima mia ‘trad’invenzione’ di un classico letterario o teatrale universale – ne avrò fatte almeno una decina in circa quarant’anni di attività drammaturgica), è che essa è fatta, qui e là, di assidui e premeditati tradimenti.
Sia rispetto all’originale testuale anglo-americano d’ispirazione, sia rispetto all’idea in generale che uno ha, o si fa, a proposito della ‘cosa’ o dell’evento’ comunemente chiamato Teatro.
Per quel che riguarda il primo aspetto, ossia quello relativo alla traslazione in un mio personale gergo Italo-napoletano del testo di partenza, il concetto operativo di traduzione (e l’ho più volte e in più luoghi sottolineato) è che esso è connesso, dal principio alla fine, col più radicale e il più libero esercizio inventivo traduttorio.
Per me, infatti, il binomio traduzione-tradimento – anche solo restando al mero piano della scrittura – non è un ‘optional’ più o meno arbitrario di chi, per lavoro, verte un idioma in un altro e diverso idioma del pianeta Terra, ma un dovere, oltre che un diritto, che va esercitato senza riserve e senza risparmio, al fine di restituire intatta al lettore (o, nel caso del Teatro, allo spettatore) tutta la vivezza e la ricchezza e la complessità e la poli-semanticità, a più livelli, già insiti, ma magari celati, nel testo ispirativo a monte.
Ed è così, allora, che, obbedendo a quanto qui di sopra ho segnalato, la minuscola ed ignota cittadina di Spoon River, nell’Illinois, col suo lillipuziano e parlante cimitero, pieno zeppo, com’ è , di dediche ed epitaffi, di grottesche e amare sintesi di vita, incise sopra i marmi o sulle croci, presso fosse o tombe di ossianica e incupente atmosfera nord-atlantica, può – nel mio immaginario e nella scrivente mano che ad esso imma-ginario è sottomessa – trasformarsi senza troppe reticenze e timidezze nel più vasto ed affollato e musicale ed inveente e, a tratti, anche incasinante ed ammuinante, cimitero o campo-in-santo della celebre città di Spentaluce.
Allegoria, quest’ultima, sin troppo trasparente, ma anche , a momenti, contrastante-confondente, di Neapolis – la greca, distrutta da un’ennesima quanto lavica eruzione micidiale del Vesuvio, che è, poi, a ben guardare, il vero e l’unico demiurgo Giove- Pluvio–Ultor, che, in bene e in male, da vivi nonché da morti, dittatorialmente, da sempre, ne sovrasta e condiziona gli abitanti.
Il secondo aspetto del lavoro da prendere in considerazione è la forma teatrale da me scelta, o ricavata, dalla ‘trad’invenzione’ linguistica suddetta, operata sul testo basico.
Cioè, l’aspetto, direttamente scenico che vien fuori dal doppio e voluto tradimento della lingua e del luogo del testo originario; come pure dello spiazzamento legato alle attese solite della costruzione dell’evento spettacolo.
Questa forma – ognuno se ne potrà rendere conto guardando la rappresentazione – è la pressocchè radicale immobilità – o semimobilità – degli attori/attrici, chiamati a impersonare le figure del testo, che, attraverso un reiterato ed assoluto gioco narrativo/denarrativo , fatto di parole e filastrocche, di senso e di non-senso, di ricordi e di smarrimenti repentini degli stessi , evidenziano e conducono la messa in scena dal principio alla fine.
Ebbene, qualcuno si chiederà perché, in questo spettacolo, io faccio così poco muovere gli attori. Ed io rispondo che la risposta, a questo giustificatissimo quesito, non può essere da parte mia che… vaga, ahimè!, o semplicemente e nudamente di tipo emotivo e, pertanto, evocativo.
Ma, forse, un briciolo di ragionamento a monte c’è. Anche se parliamo di un ragionamento fatto solo con me stesso. A labbra serratissime e a suono di parole così basso che nemmeno mi arrivano agli orecchi!
Intanto, si muovono poco o niente, perché, alla fine, dopotutto, dovrebbero ‘essere’ dei Morti. E i Morti, si sa, sono pure anime, o , tutt’al più, degli ‘apparenti’ corpi.
In secondo luogo – e qui, spero non me ne vorranno i miei concittadini spettatori! – sono Napoletani, vuoi sulla carta del copione, vuoi sopra i legni del palco – e, in quanto tali, in quanto Napoletani, già di loro sono tradizionalmente di natura dinamico-vulcanica incontenibile, come ognun sa – o s’immagina.
Pertanto, a mio avviso, sulla scena, vanno fatti muovere il meno possibile, per non incorrere, magari, in un eccesso di descrittivismo -naturalismo fisico/figurativo, che, oltre che deleterio sul piano stilistico generale, sarebbe anche ridicolmente in contrasto con la ‘parte’ di defunti, di ‘ non natura’ , di inorganica materia, che vanno a interpretare.
Ma, soprattutto, in scena, ho deciso di contenerli il meno possibile ( un meno possibile relativo, s’ intende, perché, alla fine, non voglio mica raschiare dalle loro partenopee voci e pelli quanto di espressivamente bello possono avere in relazione alla loro e nostrana indole o natura), dando loro cioè una forma statica e non inutilmente e fastidiosamente tutta giocata sulle classiche ‘entrate’ e ‘uscite’ di un Teatro di scontata convenzione, proprio allo scopo di attivare all’ improvviso e inaspettatamente l’intermittente gioco dello
scoppio della mobilità e della vivezza, dell’anarchia e dell’irriverenza che io – personalmente – immagino i Napoletani debbano conservare anche quando sono giunti nel proverbiale ‘Al di là’ – che, per l’appunto, per forza caratterialmente ignea, esplosiva loro, non può essere e tradursi che in un verace e reiterato, inestinguibile ‘Al di qua’!
Detto questo, si potrebbe anche leggere la forma – il ‘visus’ dello spettacolo – come una sorta di umile nonché sgangherato omaggio alla famosa e ben altrimenti tragica ‘classe morta’ di kantoriana memoria oppure come una scenica rivisitazione – in chiave parteno-grottesca – degli istrionici e stralunati fantasmi della ‘Visite à Jean Barrès’ del sempre attuale e surreale – metafisico Cocteau.
Perchè, in fondo, che cosa sono i Morti – e soprattutto – cos’è il luogo dove vanno a finire, quando il loro stato di moritudine è acclarato, nessuno di noi – ovviamente – lo sa.
Nonostante la sterminata sequela di suggestioni e descrizioni propinateci da arte, filosofia, religione, nei secoli dei secoli.
E pertanto, ognuno – Lee Masters, gli spettatori ed anche l’imbelle sottoscritto! – può farsene un’idea o una qualche fantasia, al riguardo.
E liberamente crederle o presumerle – entrambe, idea e fantasia – reali, oggettive, veritiere, perché, evidentemente, tanto e non più di tanto, può arrivare a comprendere e a tollerare il cuore e l’intelletto della specie detta umana.
Enzo Moscato