CONFEDERAZIONE COBAS
Cobas Comitati di Base della Scuola, Università e Ricerca
Disegno di Legge n. 2285, presentato in data 20 ottobre 2021, già approvato dalla Camera dei Deputati il 15 giugno 2021, regola Disposizioni in materia di attività di ricerca e di reclutamento dei ricercatori nelle università e negli enti pubblici.
In questi giorni è in discussione in Parlamento il Disegno di Legge n. 2285 che dovrà essere approvato entro dicembre 2021 e che, come è noto, sta suscitando un ampio dibattito.
Vogliamo iniziare la nostra analisi da una frase della Ministra Cristina Messa in merito alla proposta di Riforma dell’Università che andrà a modificare la Legge Gelmini n. 240/2010: «questa Riforma è un segnale davvero importante». Un punto ci pare fondamentale: la proposta, stando alle intenzioni dichiarate, mira ad inserire nel mondo della ricerca giovani studiosi, accorciando i tempi ed allineandoli alla media europea. Di certo questo obiettivo, se raggiunto, rappresenterebbe una svolta importante, perché il precariato storico, che per anni si è fatto carico di attività fondamentali all’interno degli atenei italiani senza alcuna tutela, ha trovato una stabile collocazione all’interno del mondo accademico solo dopo aver compiuto in media 45 anni d’età. Dato che, a maggior ragione se confrontato con il resto del mondo, è sconcertante. Ma non è tutto. Nonostante gli ultimi piani straordinari di reclutamento finanziati dal MUR, infatti, molti ricercatori capaci e meritevoli, non più tanto giovani, hanno dovuto interrompere il loro percorso di ricerca in Italia proprio per il pessimo sistema di reclutamento messo in atto dalla Riforma Gelmini, che ha pensato di arginare il precariato semplicemente fissando un limite massimo a 12 anni. Perciò una nuova riforma del sistema universitario e del reclutamento, se intende puntare sui giovani deve prevedere un arco temporale adeguato per l’ingresso dei nuovi ricercatori e una strategia ben articolata e a lungo termine che non vanifichi l’investimento di fondi pubblici di ateneo o ministeriali.
Purtroppo però, da una prima analisi del disegno di legge si direbbe che questo encomiabile obiettivo rimanga disatteso. Per farla breve, un neo-laureato che aspiri a fare ricerca in Italia avrebbe come prospettiva un lungo purgatorio da apprendista stregone. Nell’ordine: fino a tre anni di borse di ricerca; poi un triennio di dottorato; seguito da un massimo di quattro anni di assegni di ricerca; e, infine, un massimo di altri sette anni di contratto da ricercatore a tempo determinato. Mettendo tutto in fila – senza fruire di eventuali accelerazioni, ma anche senza incorrere in alcun prevedibile intoppo, non si pensi infatti di avere un figlio (cosa del tutto disdicevole) o alcun tipo di difficoltà tanto meno economica – fanno ben diciassette anni di precariato. Tutti astrattamente ricompresi nella fisiologia del sistema. Dieci dei quali – giova precisare – neppure danno luogo a un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’università (ciò che, a tacer d’altro, stabilizza e aggrava un vuoto contributivo già vertiginoso, che non ha omologhi nelle altre carriere del settore pubblico).
A parte la questione relativa alla durata in sé del percorso, sulla quale vertono numerose proposte di emendamento, volte ora ad accorciare ora a rendere più flessibili le singole tappe, ciò che lascia perplessi è la stessa qualità dei rapporti tra università e studiosi (giovani e meno giovani) che traspare da questo disegno di legge. In tal senso, la volontà legislativa non sembra cambiare rotta rispetto alla legge Gelmini, bensì intende proseguirla fino in fondo e con altri mezzi. L’idea balzana che vede un promettente neo-laureato, già nella primissima fase dell’avviamento alla ricerca, dover passare prioritariamente per il coinvolgimento in attività di ricerca «su progetto», nell’ambito di convenzioni/finanziamenti esterni (così il borsista di ricerca, già nell’impianto della Legge Gelmini), non è di facile lettura. Dato che la formazione alla ricerca risulta ancora assicurata dal dottorato, sembra lecito attendersi che queste risorse saranno concretamente impiegate per sostenere studenti che si preparano in vista di un concorso di dottorato, oppure lo hanno vinto ma senza borsa di studio: se questo è, tuttavia, sarebbe opportuno ed anzi doveroso definirne chiaramente regole e limiti, anche al fine di scongiurare distorsioni rispetto alle procedure di selezione dei “normali” dottorandi.
A parte queste opacità, che vanno necessariamente chiarite, simili opzioni non fanno ben sperare sul fronte del cronico sotto-finanziamento della ricerca pubblica e, soprattutto, rappresentano l’ennesima sterzata del legislatore verso un modello di università asservita alle logiche del mercato. Mentre nel resto d’Europa si investe in primis sulla ricerca di base, altrove percepita come bene comune, nel nostro Paese non si perde occasione per apparecchiare il sistema di reclutamento, adesso addirittura fin dai primi gradini della carriera, proiettandolo in funzione di interventi di ricerca applicata che spesso si traducono in programmi sporadici e del tutto disorganici, quando non addirittura pretestuosi (nel senso che, stanti le carenze strutturali, inevitabilmente risorse intestate alla ricerca applicata vengono di fatto utilizzate per tappare falle storiche nel sostegno della ricerca tout-court).
Abbiamo assistito, da ultimo, alla complicata gestazione di alcune risorse PON destinate a finanziare un “plotone” di dottorandi e posti da ricercatore a TD di tipo a), gemellati, sulla falsariga del PNRR, sotto il roboante vessillo della «Innovazione» e del «Green». Il punto è che non si può finanziare stabilmente la ricerca universitaria, governare a monte i suoi meccanismi di reclutamento, e men che meno indirizzare la formazione dei giovani studiosi che muovono i primi passi nell’Università con simili retoriche coniate sull’onda del denaro frusciante e, ciò che è peggio, sviluppatesi ai margini di “vuoti” e ambiguità che caratterizzano gli assetti istituzionali esistenti. Tantomeno è auspicabile che un giovane studioso sia chiamato a legittimare se stesso per il sol fatto di proporre lui dei “pieni”, sempre in forma di soluzioni doverosamente chiare e semplici: misurabili, tangibili, quantificabili, monetizzabili.
Un altro aspetto che ci sembra meriti attenzione è la modifica dell’art. 5 (1-bis): «Ciascuna Università, nell’ambito della programmazione triennale, vincola risorse corrispondenti ad almeno un terzo degli importi destinati alla stipulazione dei contratti di cui al comma 1, in favore di candidati che per almeno trentasei mesi, anche cumulativamente, abbiano frequentato corsi di Dottorato di ricerca o svolto attività di ricerca sulla base di formale attribuzione di incarichi, escluse le attività a titolo gratuito, presso Università o Istituti di ricerca, italiani o stranieri, diversi da quello che ha emanato il bando». Fermo restando che ogni professore universitario aspira a confrontarsi con il mondo accademico esterno per migliorare la qualità del proprio lavoro e che la mobilità dei docenti in Italia è tra le più basse al mondo, lasciando spazio al localismo accademico, ci chiediamo se non sia riduttivo puntare alla sola mobilità dei candidati che aspirano al primo gradino della carriera universitaria. Inoltre, riteniamo che forse sarebbe opportuno ridurre i tempi previsti portando a 24 mesi, in luogo di 36, il periodo di ricerca trascorso in altra sede; tenuto altresì conto del fatto che, nella riforma dei dottorati, attualmente in gestazione, pare sia già previsto un periodo obbligatorio all’estero.
Al di là di tutte le puntuali analisi e critiche che il Disegno meriterebbe, e che abbiamo qui parzialmente esposto, a noi sembra che un errore debba indurre a mettere in discussione l’intero progetto: l’incapacità del Disegno di Legge in questione di mettere fine al precariato della ricerca, il vero nodo della riforma Gelmini. Un fenomeno reso talmente stabile che oramai nessuno – politici, associazioni, sindacati – osa neppure mettere in discussione. Si è giunti alla accettazione di un principio che è causa di discontinuità nella ricerca, di interruzione anche definitiva della carriera e incertezza nella vita di ogni ricercatore e ricercatrice. Per questa ragione, pur avanzando alcune critiche puntuali, la nostra è piuttosto una critica complessiva all’intero impianto del Disegno di Legge, che per altro ci sembra nato da una limitata condivisione con il mondo accademico, con i precari della ricerca, con soltanto una parte delle organizzazioni sindacali, che evidentemente non hanno saputo cogliere il vero nodo della questione: la precarietà del mondo della ricerca.
A riprova della incapacità di intervenire in un sistema di reclutamento che ha ampiamente dimostrato di non funzionare solleviamo due domande: 1. Che fine faranno gli ormai “vecchi precari”, esclusi dalla legge Gelmini per questa o quella ragione? 2. E cosa succederà se l’Università si troverà di fronte a futuri tagli dei finanziamenti pubblici, così com’è successo in passato?
La storia dovrebbe insegnarci qualcosa, e noi, che quella storia maledetta, scritta dalla legge Gelmini, la conosciamo bene, riteniamo di poter dire che le prossime generazioni saranno costrette ad affrontare una nuova dura lotta per poter fare ricerca.
Ci auguriamo pertanto che il mondo politico, insieme a quello accademico, e a chiunque abbia a cuore il futuro della ricerca e delle nuove generazioni, comprenda che è necessario fermarsi e aprire una discussione sul tema.
COBAS UNISALENTO
Anna Rita Gabellone – Ricercatrice senior di Storia delle dottrine politiche
Carlo Mignone – Ricercatore senior di Diritto privato
Elisa Rubino – Ricercatrice senior di Storia della filosofia medievale