Donald Trump incontra Netanyahu, parla delle elezioni presidenziali e del rischio che si scateni la Terza Guerra Mondiale

“Se vinco non dovrete più votare”, afferma  Donald Trump  davanti a un gruppo di elettori cristiani di estrema destra, alludendo al fatto che dopo il suo prossimo mandato per loro non ci sarà più bisogno di votare, visto che in caso di vittoria del suo partito alle prossime elezioni, non sarà più necessario andare a votare: “Non dovrete più andare a votare, miei amati cristiani. Vi adoro. Uscite: dovete uscire e andare a votare. Tra quattro anni non dovrete andare a votare di nuovo. Avremo sistemato tutto così bene che non dovrete votare”.

Organi ufficiali della campagna elettorale di Donald Trump hanno fatto sapere che con queste parole l’ex presidente intendeva manifestare la sua intenzione di: “Unire il paese e portare prosperità a ogni americano, in contrapposizione al contesto politico divisivo che ha comportato anche un tentativo di assassinio”.

La platea a cui si stava rivolgendo era quella di Turning Point Action, un gruppo di pressione di estrema destra con radici all’interno di uno dei bacini elettorali più importanti per il Partito Repubblicano e per Trump in particolare, i cristiani evangelici.

La Chiesa evangelica è una delle espressione del protestantesimo luterano, che segue il principio della Sola Scriptura, riconoscendo quindi la sola autorità del testo sacro biblico, senza una gerarchia ecclesiastica.

Negli Usa è particolarmente radicata negli Stati del sud e, a seconda delle definizioni che si danno, una percentuale tra il 6% e il 35% della popolazione ne fa parte. Nelle elezioni del 2016 e del 202o Donald Trump ha attinto da questo bacino elettorale quasi un terzo dei suoi consensi.

Nel frattempo gli ultimi sondaggi continuano a segnalare un recupero del Partito Democratico su quello Repubblicano dopo il ritiro della candidatura di Joe Biden e l’endorsment da parte di quasi tutto l’establishment del partito della vicepresidente Kamala Harris.

E’ noto che uno degli elementi fondamentali nella decisione di Joe Biden di ritirarsi dalla campagna elettorale sia stata la sospensione dei fondi di finanziamento a lui indirizzati, visto che 60 milioni di dollari sono stati congelati dai manager e dai ricchi, per convincere il presidente a mollare.

Secondo il Center for Responsive Politics, la campagna per il presidente degli Usa quest’anno raggiungerà il budget complessivo di 14 miliardi di dollari. Le elezioni presidenziali negli Usa sono il più costoso spettacolo nel mondo, anche perché i soldi non servono solo per fare arrivare lo show ovunque, ma anche per pagare tanti biglietti agli spettatori. È chiaro che questa marea di danaro diventa un muro. Una barriera attraverso la quale passano solo i candidati che sono graditi a chi può spendere milioni per sostenerli.

Sono i grandi ricchi, le multinazionali, le società finanziarie e le banche che decidono chi sia il candidato presidenziale, per entrambi gli schieramenti. Poi certo il popolo può scegliere, ma la vera selezione è già avvenuta.

Negli Usa è previsto il finanziamento pubblico alla politica, ma ovviamente esso fornisce cifre inferiori a quelle dei fondi privati e soprattutto è incompatibile con questi ultimi. Cioè chi si candida deve scegliere se farsi finanziare dal pubblico o dal privato. Ovviamente tutti i candidati scelgono di inseguire i soldi dei ricchi, anche se i fondi pubblici ammontano a ben 300 milioni di dollari.

Se ci vogliono miliardi per diventare presidente degli Usa, le cariche più importanti – governatore di uno stato, senatore, rappresentante alla Camera, sindaco delle grandi città – richiedono milioni e quelle inferiori centinaia di migliaia di dollari, a persona. I politici inseguono i ricchi, i ricchi scelgono quei politici per loro più adatti a concorrere alle cariche istituzionali.

In poche ore dal ritiro di Joe Biden dalla corsa alla Casa Bianca, la sua erede designata, la vicepresidente Kamala Harris, ha raccolto quasi 50 milioni di dollari in donazioni. Nei due giorni successivi questa cifra ha raggiunto i 250 milioni di dollari pareggiando quanto raccolto da Joe Biden nei mesi precedenti.

Soldi che vengono sia dai grandi donatori del Partito Democratico sia da persone comuni e che hanno permesso alla nuova candidata di superare la cifra raccolta da Donald Trump. Non tutti questi soldi vengono però donati direttamente ai candidati. La legge statunitense rende complesso donare grandi cifre ai partiti, per questa ragione esistono i comitati di azione politica, o Pac.

Il finanziamento ai partiti in campagna elettorale negli Usa è complesso ed è regolato da alcune leggi molto restrittive. Ogni partito può avere un certo numero di Political actions committee, comitati di azione politica, o Pac. Queste organizzazioni raccolgono fondi espressamente a favore di un candidato o di un partito e possono donare direttamente alla campagna elettorale che hanno scelto

Ogni persona però può donare un massimo di qualche migliaio di dollari all’anno a un Pac e l’organizzazione deve registrare i propri donatori trasferendo i dati al Fec, la Federal election commission, che sorveglia il regolare svolgimento delle elezioni. Fino al 2008 questo era l’unico modo per finanziare una campagna elettorale, che quindi si basava su un grande numero di donazioni relativamente piccole.

La Corte stabilì che il documentario poteva andare in onda con una decisione presa da 5 giudici contro 4 e basata sul primo emendamento della costituzione, quello che garantisce la libertà di espressione, che venne esteso anche alle organizzazioni e alle aziende oltre che ai cittadini.

Nacquero così i SuperPac, organizzazioni che raccolgono fondi tramite donazioni e che, almeno in teoria, non sono in nessun modo coordinati con la campagna elettorale di nessun candidato. In pratica però spesso i nomi stessi dei Pac richiamano uno specifico candidato. I SuperPac possono ricevere donazioni di qualsiasi cifra e non devono riportare alla Fec chi siano i donatori. L’unica limitazione è quella di non ricevere fondi dall’estero. Queste associazioni hanno cambiato la politica statunitense negli ultimi 15 anni, aumentando a dismisura la quantità di fondi e soprattutto di grandi donatori coinvolte e rendendo meno trasparente il finanziamento ai partiti.

Per questa ragione è difficile ad oggi capire chi finanzi davvero le campagne elettorali dei due partiti maggiori. Entrambi sono sostenuti da molti SuperPac, legati a vari personaggi, che hanno raccolto somme enormi.

I nomi che circolano e che sarebbero dietro a questa ondata di donazioni sono però solo ipotesi. Future Forward, come ogni altro SuperPac, non è tenuto a pubblicarli. I fondi di Harris non finiscono però qui. Quando la convention Democratica di Chicago la nominerà ufficialmente candidata, la vicepresidente erediterà 95 milioni di dollari donati alla campagna Biden-Harris prima che il presidente uscente si ritirasse. Una cifra criticata dai repubblicani, che temono che l’enorme quantità di donazioni possa porli in svantaggio nella campagna elettorale.

In precedenza, stando ai dati riportati dal sito Open Secrets, i fondi raccolti da queste organizzazioni per la campagna elettorale del 2024 sarebbero andati per il 60% o in favore dei repubblicani o contro i democratici.

Nessuno dei primi 10 SuperPac era esplicitamente a favore del Partito Democratico e in testa alla classifica c’era il principale sostenitore della campagna Trump, Make America Great Again Inc, che aveva raccolto oltre 178 milioni di dollari. Trump avrebbe infatti attirato in tutto 221 milioni di dollari, mentre Harris sarebbe già arrivata a sfiorare i 285 milioni.

Il co-fondatore  di Netflix, il democratico Reed Hastings,  ha donato 7 milioni di dollari alla campagna presidenziale della vicepresidente Kamala Harris.

La donazione di Hastings è arrivata dopo che in precedenza lo stesso imprenditore aveva chiesto al presidente Joe Biden di “farsi da parte” dalla corsa presidenziale dopo la sua performance poco brillante al dibattito presidenziale del 27 giugno. Ora Hastings, dopo la discesa in campo di Kamala, ha dichiarato che “dopo il dibattito deprimente, siamo di nuovo in gioco”.

La donazione rappresenta anche la più grande donazione singola di Hastings a un candidato politico. Martedì, Hastings ha scritto in un post su X: “Congratulazioni a Kamala Harris, ora è il momento di vincere”.

In risposta alla donazione e al sostegno di Hastings per Harris, molti elettori repubblicani si sono rivolti ai social media per annunciare che avrebbero disdetto il loro abbonamento a Netflix. “Se non l’hai già fatto, è ora di #CancelNetflix”, ha scritto un utente in un post. “Ho cancellato ieri e così ha fatto la maggior parte dei miei amici”, ha scritto Brittany Ray su X. Proprio in queste ore, su X, l’hashtag #cancelnetflix è entrato in tendenza.

Hastings e sua moglie, Patty Quillin, attraverso  una organizzazione guidata da Chauncey McLean, esponente del Partito democratico, hanno già speso decine di milioni di dollari in una pubblicità anti-Trump durante la corsa presidenziale del 2020.

Volano stracci fra Donald Trump e Kamala Harris, Siamo  a circa  90  giorni dal voto del 5 novembre che decreterà il nuovo presidente degli Stati Uniti. Anche se la vicepresidente in carica non ha ancora ricevuto l’investitura ufficiale da parte dei democratici non sembrano esserci dubbi sul fatto che sarà lei, dopo il ritiro di Joe Biden, a contendere al tycoon la Casa Bianca e il clima si fa sempre più incandescente con reciproche accuse tra i due sfidanti.

Kamala Harris ha tenuto in Wisconsin il suo primo comizio da candidata di fatto del partito Democratico alle prossime elezioni presidenziali negli Stati Uniti, dopo il ritiro dalla corsa del presidente Joe Biden. E ha subito attaccato il suo rivale, Donald Trump, partendo dai guai giudiziari del magnate americano. Intanto dai Repubblicani arriva la richiesta di impeachment per Harris per presunti crimini commessi da vicepresidente.

Il comizio di Kamala Harris, previsto già prima che Biden si ritirasse, si è tenuto nella serata di martedì 23 luglio a Milwaukee, in Wisconsin, dove la scorsa settimana si è svolta la convention dei Repubblicani.

Una scelta non casuale, dato che il Wisconsin è uno degli Stati chiave per la vittoria alle elezioni presidenziali.

Si tratta infatti di uno dei cosiddetti “swing states”, dove i consensi per Democratici e Repubblicani sono sostanzialmente alla pari. Basta quindi poco per indirizzare lo Stato da una parte o dall’altra, e una buona campagna elettorale è fondamentale.

Il primo comizio della vicepresidente Usa è stato breve: un discorso di 16 minuti in cui ha ripetuto molte delle promesse elettorali di Biden: dall’accesso alla sanità e all’assistenza sociale al diritto alle ferie pagate, passando per pensioni e infrastrutture fino al diritto all’aborto e al divieto per le armi d’assalto.

Ma la parte più applaudita dal pubblico è stata quella in cui ha parlato del suo rivale nella corsa alla Casa Bianca, Donald Trump.

Kamala Harris ha usato la sua esperienza di procuratrice generale della California per attaccare l’ex presidente, facendo riferimento alla condanna e ai guai giudiziari di Trump.

“Mi sono occupata di criminali di tutti i tipi. Criminali che hanno abusato delle donne. Truffatori che hanno derubato i consumatori. Imbroglioni che hanno infranto le regole per guadagnarci dei soldi. Quindi ascoltatemi quando dico che so che tipo di persona è Donald Trump“, ha detto Harris.

I Repubblicani chiedono l’impeachment.

Il deputato repubblicano Andy Ogles ha presentato una risoluzione per chiedere la messa in stato di accusa di Kamala Harris per presunti crimini commessi quando era vicepresidente.

Ogles accusa Harris di aver gestito male il dossier immigrazione – uno dei temi centrali della campagna elettorale trumpiana – che Biden le aveva affidato.

Una richiesta di impeachment che non sembra avere basi solide e che molto probabilmente non andrà avanti, considerando che i Dem hanno la maggioranza in Senato.

Donald Trump, ha ricevuto a Mar a Lago il premier israeliano Benjamin Netanyahu e la moglie Sarah. Nel suo discorso, l’ex presidente degli Stati Uniti d’America ha parlato anche del rischio di una Terza Guerra Mondiale.

In occasione dell’incontro con Benjamin Netanyahu a Mar a Lago del 26 luglio, Donald Trump ha detto ai giornalisti: “Se vinciamo, sarà semplice, tutto funzionerà e sarà molto veloce. Se non vinciamo, finiremo per avere grandi guerre in Medio Oriente, forse una Terza Guerra Mondiale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, oggi più che in ogni altro momento siamo vicini a una Terza Guerra Mondiale. Non siamo mai stati così vicini, perché abbiamo persone incompetenti che guidano il nostro Paese”.

A proposito della sua relazione con il Primo Ministro di Israele Benjamin Netanyahu, il tycoon statunitense ha affermato che “nessun presidente ha fatto quello che ho fatto io per Israele”.

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