Questa settimana la Federazione italiana degli editori di giornali è tornata a chiedere con insistenza al governo aiuti per il settore dei giornali, che è in indiscutibili difficoltà e che ha un indiscutibile ruolo di servizio pubblico. Sul tema di trovare formule pubbliche eque ed efficaci per sostenere e migliorare il suddetto ruolo abbiamo scritto altre volte. Che debbano essere eque ed efficaci è molto importante: l’attuale sistema del finanziamento diretto mostra sia la loro inefficacia – a beneficiarne non sono testate che sostengono questo ruolo più di altre, e spesso meno – che la loro iniquità, creando una distorsione di concorrenza. Qualunque delle testate in questa lista di destinatari – facciamo piccoli esempi – grazie ai soldi pubblici ricevuti può fare una proposta economica più alta a un tale giornalista, rispetto a un’altra. Può fare sconti maggiori a un inserzionista pubblicitario, rispetto a un’altra. Può tenere più basso il prezzo di un abbonamento, rispetto a un’altra. E se un giornalista, un inserzionista, un lettore, si trovano a fare una scelta, la scelta è sbilanciata da quel contributo pubblico.
Per questo suona altrettanto sbilanciata e non equa la richiesta degli editori che i contributi sostengano le spese della carta o delle rese: i “giornali di carta” non sono più un settore a sé, il settore sono “i giornali” e tutti i giornali di carta sono anche nel business digitale. Il sito del Messaggero e quello di Fanpage sono concorrenti, per esempio, eppure nei bilanci del primo finirebbero anche dei contributi pubblici “per la carta” che il primo non avrebbe. I contributi pubblici sono sicuramente opportuni, ma con formulazioni e criteri meno novecenteschi, più rivolti all’innovazione, e più equi.