Cosa farà Trump presidente degli Usa al momento non è dato sapere. Sicuramente sarà un personaggio diverso da quello che abbiamo conosciuto in questi mesi. Ma non troppo perché, come spesso si sottolinea negli Usa, il primo mandato presidenziale viene dedicato alla rielezione, il secondo per passare, eventualmente, alla storia. È allora evidente che la necessità di mitigare certi atteggiamenti non può entrare in rotta di collisione con l’esigenza di tenere insieme il blocco social-elettorale che lo ha portato al trionfo. Per sostenere che quello a Trump sia stato un voto in direzione del cambiamento è stato sottolineato dal come Hillary Clinton, al contrario di Bernie Sanders, non sia riuscita a catalizzare il voto dei Millenials creando così le basi per la sua sconfitta. In realtà quel voto non lo ha conquistato nemmeno Trump perchè i ragazzi nati fra i primi anni Ottanta e gli inizi del Duemila si sono semplicemente astenuti. Questa generazione è caratterizzata da un maggiore utilizzo e una maggiore familiarità con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali. In molte parti del mondo, l’infanzia della generazione Y, o Millenians, è stata segnata da un approccio educativo tecnologico e neo-liberale, derivato dalle profonde trasformazioni degli anni sessanta. Probabilmente confidavano che alla fine Hillary ce l’avrebbe comunque fatta e adesso manifestano a New York come a Los Angeles, a San Franciso, a Chicago inalberando cartelli dal contenuto chiarissimo: ‘Not my president’, con il volto di ‘The Donald’ all’interno della ‘o’ di Not. Se il rinnovamento si misura sulla originalità delle idee, e sul tasso di adesione ad esse, delle nuove generazioni il nuovo presidente degli Stati Uniti è molto più semplicemente il frutto delle insoddisfazioni e dei risentimenti che la crisi ha prodotto, non una rivolta verso un modo vecchio di manovrare i bottoni del potere, ma più semplicemente un urlo di insoddisfazione verso Obama capace di far salire l’occupazione ma non il reddito. Nella lunga campagna elettorale, il neo-presidente si è presentato e fatto eleggere come paladino della middle class e della working class devastate dalla crisi economica più grave che il mondo abbia conosciuto. Questo, però, va bene per la propaganda perché si fatica a vestire Trump con i panni del rivoluzionario sociale intento a rimettere a posto le iniquità di questo mondo. Mai nella sua vita ha condiviso i problemi di quelle persone a cui dice di volersi rivolgere. Difficile immaginare che possa comprendere i disagi di un operaio dell’America profonda. Lui che fa parte di quell’uno per cento della popolazione mondiale che ha accumulato ricchezze superiori a quelle del rimanente novantanove. È stato anche eletto a simbolo della rivolta contro le lobbies, che se avvenisse realmente sarebbe benefica. Ma che la possa guidare Trump appare piuttosto improbabile. E, comunque, tra i suoi maggiori finanziatori spicca una potentissima lobby: quella delle armi. La difesa del secondo emendamento, il diritto dei cittadini a detenere e portare armi, nasce anche dalla pressione che su di lui esercitano i produttori di armi. Come la Brexit, anche l’elezione di Trump a presidente è la manifestazione di un cambiamento che non deve spaventare perché sono stati i cittadini a volerlo. Quegli stessi cittadini che tutti i media e i partiti tradizionali non sono stati in grado di ascoltare e comprendere. I cittadini americani hanno scelto ed hanno voluto Trump. La sconfitta di Hillary Clinton è la rivolta di un popolo contro Wall Street, contro le banche, contro la politica dei palazzi, dei grandi giornali, dell’establishment, e la vittoria di Trump è l’espressione di un popolo che vuole un futuro diverso, che vuole scuotere le economie, a partire dalla sua, che vuole ripartire da più lavoro e meno tasse. Questo popolo americano ha eletto Trump e sostituito Obama, perché la prima evidenza del voto è che si è trattato del giudizio negativo su una presidenza, quella del primo colorato, che ha deluso un po’ tutti, e che lascia un’America meno potente nel mondo, più povera, indebitata e ingiusta all’interno. Obama ha fatto una campagna anomala in favore della Clinton, pur non amandola, perché preoccupato della sua eredità politica che Hillary poteva gestire. Si poteva tuttavia immaginare che la pancia dell’America bianca, tuttora razzista e dedita a vecchi valori della prateria, non tollerasse una presidenza al femminile dopo otto anni di presidenza nera. A questo punto è lecito chiedersi se Trump vorrà realizzare quanto promesso in campagna elettorale. Trump è un pragmatico e, probabilmente, capirà che gli obiettivi indicati nella sua campagna elettorale sono irrealizzabili, come quelli di costruire un muro verso il Messico e tassare del 45% i prodotti cinesi. Molto dipenderà da chi il presidente eletto si metterà vicino, ad iniziare da chi farà la politica economica e di sicurezza, i dossier più importanti, anche per noi europei. Abbiamo davanti un’America tutta rossa in politica (negli Stati Uniti il rosso è il colore dei conservative come il blu dei liberali e progressisti) con Congresso e Camera a maggioranza repubblicana; presto conservative nel consesso dei giudici supremi, probabilmente in perpetuo conflitto sui fondamentali da assumere in economia tra la vestale della Federal Reserve, la presidente Janet Yellen, e l’accolta repubblicana, da subito preoccupata di perdere i privilegi del pigliatutto alle elezioni di mid-term fra due anni, quindi favorevole a deregolamentare il mercato e spingerlo a mille. Se Trump realizzasse quello promesso in campagna elettorale vedremmo innalzate barriere al libero commercio, ripiegamento della globalizzazione, cantieri americani aperti alla costruzione delle nuove infrastrutture promesse. Pertanto, nazionalismo e guerre commerciali verso l’esterno. Con il debito, ad esempio con Cina e Arabia Saudita, che gli Stati Uniti si ritrovano e che andrebbe a crescere ulteriormente, il progetto appare, quindi, impraticabile. Naturalmente quanto detto lo si potrà verificare a partire dal 21 gennaio 2017.
Roberto Cristiano