«Agli elettori di Azione non possiamo chiedere di votare Di Maio, Bonelli (anti Ilva, termovalorizzatori e rigassificatori) e Fratoianni (che ha votato 55 volte la sfiducia a Draghi) nei collegi uninominali». Il tweet di Carlo Calenda ha dato il senso della forse più rischiosa scommessa della storia politica recente. Sembra un “no, grazie” alla coalizione imperniata sul Pd: corro da solo e chi mi ama mi segua. Matteo Renzi ha deciso la stessa cosa.
In pratica un terzo polo, fatto nuovo delle elezioni italiane 2022, una rottura dello schema di Enrico Letta e Giorgia Meloni del blocco contro blocco.
Una sola richiesta al segretario del Pd di rispondere a due richieste precise: niente antidraghiani nei collegi uninominali e linea comune su energia ed economia.
Calenda è convinto di smentire quello che istintivamente pensano tutti, e cioè che la divisione farà vincere Giorgia Meloni: dove sta scritto che Azione/Più Europa e Italia viva non possano essere capaci di togliere alla destra quei voti che nei collegi potrebbero essere determinanti per la vittoria o del candidato centrista o, più probabilmente, di quello di sinistra?
Calenda-Renzi consolidano un’area centrista, insidiando i voti di una Forza Italia che sta perdendo pezzi esattamente in direzione di Azione. Come diceva Fausto Bertinotti, «le mele con le mele, le pere con le pere», e può leggersi questa vicenda, come l’eterna divisione tra le due sinistre.
L’alternativa diretta dal Pd che ha ufficialmente arruolato “Impegno civico” di Luigi Di Maio, candidato di Bibbiano, il quale ha persino scomodato Papa Francesco per questa denominazione.
La coalizione lettiana è a evidente trazione di sinistra e non è immune da simpatie grilline con Di Maio, Federico D’Incà e Davide Crippa al punto – lo ha scritto La Stampa – che il Nazareno starebbe corteggiando il disoccupato Roberto Fico, uomo di Conte fino all’ultimo respiro, con l’evidente scopo di mantenere un filo con il killer del governo Draghi. Poi la proposta lettiana di una nuova tassa per favorire i diciottenni.
La questione stavolta riguarda a noi pare non riguardi i seggi sicuri. Il Pd di Letta ha messo in giro che Renzi fa perdere voti e Calenda pure. Così quest’ultimo ha subìto le pressioni dei suoi e di ambienti vicini per dire “no” a una coalizione “non draghiana”.
Enrico Letta, a questo punto, guida una coalizione squilibrata a sinistra senza una “gamba” più riformista e moderata. Se Calenda e Renzi rompono, i cocci saranno tutti di Letta.
Coloro che fino a ieri hanno sostenuto il governo Conte e l’ipotesi di un’alleanza strategica con il Movimento 5 stelle, teorizzando che il primo fosse un grande statista e il secondo un movimento progressista coi fiocchi, hanno subito di malavoglia o esplicitamente contrastato il governo Draghi e di conseguenza, quegli stessi soggetti dicono oggi che è con i cinquestelle che bisogna allearsi, ed è semmai con i sostenitori della cosiddetta «agenda Draghi» che occorre tagliare i ponti, o perlomeno segnare una distanza
Sul fronte opposto – all’interno dell’area di centrosinistra, progressista, non di centrodestra o come volete chiamarla – Carlo Calenda e Matteo Renzi hanno sostenuto, con altrettanta linearità, la posizione speculare: non avendo appoggiato il governo Conte (nel caso di Calenda) o avendone contrastato le scelte fino a provocarne la caduta (nel caso di Renzi), entrambi hanno sostenuto che è con i populisti che non ci si può alleare. Tanto più se l’obiettivo è realizzare il programma del governo Draghi e in particolare quei punti e quei principi richiamati dal presidente del Consiglio nel suo discorso della fiducia, e contestati da Conte.
Si potrà pensare che ha ragione Conte o che ha ragione Draghi, ma non si può pensare che abbiano ragione entrambi. Non si può sostenere che i rigassificatori vadano fatti ma anche impediti; che i termovalorizzatori si debbano realizzare ma anche bloccare; che le armi all’Ucraina vadano inviate ma anche no; che le norme sul superbonus (e sul reddito di cittadinanza) vadano riscritte in modo da evitare perlomeno gli sprechi, le truffe e le distorsioni più clamorose, ma anche lasciate esattamente così come sono.
La verità è che il Pd il governo Draghi non lo voleva affatto, come testimoniano i manifesti in cui diceva che l’unica alternativa al Conte ter erano le elezioni. Questo è il motivo per cui Nicola Zingaretti si è dovuto dimettere subito dopo. A quel punto nel partito si sarebbe dovuta aprire una seria discussione sulle scelte compiute, ma siccome tutti i massimi dirigenti le avevano condivise e ne avevano beneficiato, hanno preferito far finta di nulla, e lo stesso Letta ha continuato sulla stessa strada, immaginando di poter conciliare l’inconciliabile, presentandosi al tempo stesso come il più fervente sostenitore del governo Draghi e il più strenuo sostenitore dell’alleanza con i cinquestelle. Bisognava scegliere: o l’alleanza con i cinquestelle e la difesa dei risultati del governo Conte, o la rivendicazione delle scelte, diametralmente opposte, del governo Draghi.
E così, quando alla fine il Movimento 5 stelle ha deciso di non votare la fiducia al governo, il Pd si è trovato a dover compiere obtorto collo la scelta che aveva rinviato fino a quel momento: accettare fino in fondo la subordinazione alla linea populista dei suoi alleati, schierandosi dunque al loro fianco, contro Draghi, o viceversa.
Pur di non fare chiarezza, la brillante soluzione escogitata fin qui è stata un’alleanza senza i cinquestelle (perché non hanno votato l’ultima fiducia a Draghi) ma con Fratoianni (che non gliel’ha votata mai), con Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini (da qualche giorno autorevoli dirigenti di Azione) ma anche con Luigi Di Maio. Quale senso politico, quale messaggio, quale campagna elettorale possa sviluppare un simile accrocco – ammesso e non concesso che un simile accrocco regga, e non salti in aria entro le prossime quarantotto ore – è difficile capirlo.
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