Il compito di Renzi, Calenda, Carfagna, Bonino, Beppe Sala, Toti, Gelmini, Bentivogli, Casini, Della Vedova e di tutti gli altri è molto complicato e assai urgente. Mancano due mesi alle elezioni, uno soltanto alla presentazione delle liste dei candidati. Quindi tutti quanti dovranno superare velocemente personalismi e risentimenti e costruire in tre settimane un’offerta elettorale comune e credibile.
Ma per aspirare davvero a un risultato significativo alle elezioni e decisivo nel prossimo Parlamento, i sostenitori più leali del governo di Mario Draghi dovranno evitare di presentarsi come una sommatoria di simboli alleatisi per disperazione e per mancanza di alternativa.
È necessaria la nascita di un nuovo partito, di un partito vero, con le sue liturgie democratiche, i suoi apparati territoriali, i suoi progetti politici, con meno tasse, più protezione sociale e ambientale.
Lo schema del leader del Pd – il derby tra noi o la Meloni – è teoricamente elementare: tutti dentro, da Roberto Speranza a Renato Brunetta, con il Pd che si apre persino nel simbolo, Pd-Dp (democratici e progressisti) – tanta gente resterà fuori dalle liste per raggiunti limiti di mandati ricoperti e largo ai giovani.
Tutti dentro non solo “contro”, ma anche in positivo, vale a dire tutti dentro coloro che hanno appoggiato l’opera di Mario Draghi, il vero spartiacque tra “noi” e “loro”, il gran convitato di pietra di queste elezioni del 25 settembre: ed è da qui che discende l’anatema, il fortissimo anatema, per Conte-the-killer. Lui non ci sarà nella Grande alleanza draghiana, e non gli resta che imprecare contro un destino tutt’altro che cinico e baro che si è fabbricato con le sue stesse mani. Il M5s si avvia a una disfatta senza precedenti, e l’avvocato ne sarà il becchino.
Letta sceglie dunque di cacciare il mercante Conte dal tempio democratico pur senza fare un minimo di autocritica, comme d’habitude, ma la storia è cambiata, e questo è un fatto. Finalmente il Pd indica il proprio orizzonte politico a partire dalla storia di questo anno e mezzo sotto il segno dell’ex banchiere centrale, naturalmente forzandone i capitoli sociali, ma quello è il riferimento politico e ideale.
Va detto però che l’operazione “motivazionale” del segretario, volta a bloccare un pauroso animo depressivo che si è impossessato del Nazareno dinanzi a sondaggi che non lasciano spazio ai sogni, non risponde ancora alla questione di fondo. Perché l’operazione lettiana non si può ridurre a un “Cencelli” tra le varie forze politiche ma ha bisogno di essere animata da un certo spirito politico-programmatico ispirato alla chiarezza – e sui contenuti la storia del centrosinistra da trent’anni a questa parte non è certo rosa e fiori. Né si potrà eludere la questione del candidato premier: ma è ovvio, su questo punto, che se l’intera cattedrale lettiana dovesse essere edificata pur in così poco tempo sarà lui, l’uomo venuto da Parigi, a impersonare l’anti-Giorgia.
Ma intanto l’apertura c’è. La novità più grande è l’improvviso feeling con Carlo Calenda, non a caso l’unico nome citato esplitamente da Letta nell’intervista a Repubblica. Calenda ha capito che qualcosa si è mosso. E ora è pronto al confronto unitario, lasciando perdere la vocazione isolazionista seguita sin qui. E cade il veto su Matteo Renzi che qualche brillante dirigente del Pd aveva insufflato all’orecchio dei giornalisti, anche se Ettore Rosato è comprensibilmente guardingo: «La questione non è solo quella dei veti di Letta ma è politica, vedremo nelle prossime giornate».
Così si fanno i primi calcoli, qualcuno ipotizza una pattuglia renziana di 15 parlamentari, tra eletti nella quota proporzionale ed eletti nei collegi; mentre Calenda, potrebbe guidare almeno 35 deputati e senatori. E dunque nei prossimi giorni sarà tutto un fare i conti con il bilancino per garantire le varie componenti della Grande alleanza antimeloniana e la fatica non sarà poca. Nel segno di Draghi e contro Conte e la destra.
Si è aperta così la crisi e, come raccontato perfino da Renzi, i dem hanno cercato di risolverla proponendo a Draghi un governo con loro, i grillini e una parte di Forza Italia e forse pure della Lega, ma rigorosamente senza Salvini. Letta è andato a proporlo di persona, a tu per tu, a Draghi prima del suo discorso decisivo in Senato. A quel punto il centrodestra ha fiutato la trappola e si è staccato. Solo che, a differenza di quanto previsto dal Pd, Berlusconi e Salvini sono riusciti a serrare le fila e il centrodestra ha perso solo i ministri azzurri, che di fatto erano gia passato da un pezzo dall’altra parte.
Ora che la loro strategia è fallita, i dem accusano il centrodestra di aver mandato a casa il numero uno e attaccano a testa bassa, agitando i fantasmi del fascismo, dell’antieuropeismo, del putinismo, dello spread, dell’inevitabile fallimento del Paese. Siamo arrivati al punto che coloro che hanno creato le premesse perla caduta di Draghi ora si presentano alle elezioni come i suoi eredi morali, senza peraltro che l’interessato li abbia autorizzati a farlo. Portano la serietà e la competenza del premier come un vessillo, che copra la loro mancanza di unità, capacità, affidabilità.
Si è letto che la Meloni valuterebbe di correre da sola, che ci sarebbe un violento scontro in atto sulla leadership della coalizione, che già ci si starebbe azzannando sulla spartizione dei seggi.
Berlusconi e Meloni hanno già avuto un incontro privato per riavvicinare le distanze che ha dato buoni esiti e la prossima settimana si incontreranno anche con Salvini per iniziare a preparare il voto.
Quanto ai criteri perla distribuzione dei seggi, il centrodestra ha un schema consolidato da 25 anni che prevede una media ponderata tra i risultati avuti dai singoli partiti alle ultime Politiche, gli esiti dei tre sondaggi più recenti e l’andamento delle elezioni di medio termine. È un calcolo matematico che lascia poco spazio a polemiche e impuntature. Altra questione ingigantita dagli avversari è quella dell’indicazione del premier. Essa non ci sarà, per non regalare agli avversari un bersaglio contro il quale accanirsi, e per non alterare la competizione tra i partiti, destabilizzandoli.
La prassi prevede che il partito che il 25 settembre avrà avuto più voti indicherà il premier, sottoponendolo all’approvazione degli alleati. Questo hanno ribadito sia la Meloni sia Salvini, mentre Berlusconi ha parlato di un’assemblea degli eletti, che altro non sarebbe se non una diversa procedura per arrivare al medesimo risultato. Chi afferma che dietro questa formula il Cavaliere nasconda la propria ambizione di tornare a Palazzo Chigi avvelena i pozzi sapendo di mentire, come chi sostiene che, in caso arrivasse prima, la Meloni farebbe il diavolo a quattro e non accetterebbe altre soluzioni se non la propria investitura. Tanti sono invece i premier papabili della coalizione, a dispetto di chi afferma che il centrodestra non avrebbe un’adeguata classe dirigente. Nomi alla mano, ha invece più soluzioni della sinistra, che in mancanza di generali propri sta cercando di far credere al Paese di aver arruolato Draghi, o che questi si stia appoggiando a lei. Cosa che l’interessato si è affrettato a smentire con decisione.