L’ex manager Eni Vincenzo Armanna sarebbe stato avvicinato da alcuni dirigenti del gruppo petrolifero italiano per convincerlo a ritrattare alcune sue dichiarazioni relative a presunte tangenti in Nigeria a favore di manager della società italiana.
È quanto ha dichiarato il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale nel corso dell’udienza al Tribunale di Milano nell’ambito del processo sulle presunte tangenti Eni e Shelll in Nigeria.
“Siamo venuti a conoscenza che Eni, attraverso suoi dirigenti, avrebbe messo in atto attività di condizionamento avvicinando l’imputato Armanna per convincerlo a ritrattare alcune dichiarazioni”, ha detto in aula De Pasquale.
La dichiarazione del pm è avvenuta nell’ambito del suo intervento teso a opporsi alla richiesta delle difese di Eni di rinviare l’interrogatorio dell’ex manager, dopo che la procura ha notificato alle parti alcuni atti dell’inchiesta sul cosiddetto “depistaggio”; l’ultimo documento arrivato ai difensori ieri sera, da cui emergerebbe il tentativo di condizionamento di Armanna.
I giudici hanno poi dato il disco verde all’interrogatorio oggi, a condizione che le domande sul presunto tentativo di depistaggio fossero rinviate alla prossima udienza, il 22 luglio, per dar modo alle difese di esaminare meglio i nuovi atti e poter effettuare contestualmente il contresame.
In questi nuovi atti, due verbali di interrogatorio e una memoria, due indagati nell’inchiesta sul presunto depistaggio e un testimone raccontano di un tentativo di far ritrattare ad Armanna le sue accuse all’AD di Eni Claudio Descalzi in relazione alle presunte tangenti in Nigeria, effettuato nel maggio 2016 dal braccio destro di Descalzi, Claudio Granata, in un incontro a Roma, offrendogli in cambio di essere riassunto in azienda.
Eni ha risposto con un comunicato annunciando di aver presentato querela nei confronti di due dei tre autori dei documenti depositati dal pm alle parti, l’ex legale esterno Eni Piero Amara e l’avvocato Giuseppe Calafiore, oltre che nei confronti di Armanna.
“Vengono smentite in modo categorico le affermazioni rese dall’Avvocato Amara attraverso la propria memoria depositata dal suo difensore” nel procedimento sul presunto depistaggio, dichiarazioni “assolutamente prive di fondamento e di contenuti diffamatori dell’AD di Eni”, è scritto nel comunicato.
Eni, inoltre, informa che il Chief Services & Stakeholder Relations Officer della società, Claudio Granata, ha sporto denuncia per calunnia nei confronti dell’avvocato Giuseppe Calafiore e di Amara e per diffamazione aggravata nei confronti dell’ex manager Eni Vincenzo Armanna.
“Le affermazioni avanzate dai tre soggetti denunciati, volte a configurare gravi accuse di reato, sono state a più riprese smentite da Claudio Granata poiché riportano circostanze false e per di più prive di qualsiasi logica e fondamento,” spiega Eni.
Nel corso dell’interrogatorio poi, Armanna a ribadito le sue dichiarazioni rese in indagini preliminari, sottolineando che tutti coloro che avevano avuto un ruolo operativo nel deal per il giacimento nigeriano, erano perfettamente a conoscenza che il pagamento della licenza era destinato alla società dell’ex ministro del Petrolio e non al governo nigeriano.
Il procedimento in corso a Milano vede imputate le società Eni e Shell e altre 13 persone fra le quali l’AD Eni Claudio Descalzi (nella sua veste, all’epoca dei fatti, di direttore generale della divisione Exploration e Production), l’ex AD Paolo Scaroni e l’ex direttore esecutivo per esplorazione e produzione di Shell, Malcolm Brinded.
L’accusa ipotizza il pagamento di tangenti per 1,092 miliardi su 1,3 miliardi di dollari versati nel 2011 da Eni e Shell su un conto del governo nigeriano per l’acquisto della licenza per l’esplorazione del campo petrolifero Opl-245. Il periodo dei fatti contestati va dall’autunno 2009 al 2 maggio 2014.
Tutti gli imputati hanno sempre respinto le accuse, sottolineando che il prezzo dell’acquisto fu versato su un conto ufficiale del governo di Lagos e che il successivo trasferimento di gran parte del denaro su altri conti, in particolare su quello della società Malabu (che la procura indica appartenere all’ex ministro Etete), era al di fuori della sfera d’influenza delle società acquirenti.