Il trattamento con l’associazione ombitasvir/paritaprevir/ritonavir combinata con dasabuvir è in grado di garantire una risposta virologica sostenuta a 12 settimane dopo la fine del trattamento in pazienti con infezione cronica da virus dell’epatite C di genotipo 1. E ciò avviene, sia nei regimi terapeutici che comprendono ribavirina, sia quelli in cui il farmaco è assente. Soprattutto, l’efficacia è garantita anche nei casi in cui l’infezione sia caratterizzata da varianti virali associate alla resistenza. È uno dei dati emersi da un’analisi post-hoc realizzata da AbbVie su cinque sperimentazioni cliniche di Fase 3 ora concluse e che sono stati presentati in occasione del congresso The International Liver Congress 2016 in corso a Barcellona. Durante la fase di replicazione del virus dell’epatite C vengono prodotte varianti della proteina virale NS5A. A oggi, è ancora poco chiaro quale sia l’effetto di queste varianti sulla risposta al trattamento, sia in termini di possibile sviluppo di resistenza alla terapia sia di risposta risposta virologica sostenuta. ‘Per potere dare una risposta alle esigenze di pazienti e medici diventa fondamentale capire le problematiche rilevate durante il trattamento dell’infezione cronica da Hcv, ad esempio l’aspetto relativo alle varianti associate alla resistenza’, ha spiegato Rob Scott, vice presidente Development e chief medical officer di AbbVie. La più approfondita conoscenza dell’impatto prodotto dalla resistenza su regimi a base di agenti antivirali ad azione diretta rende ancora più pressante la necessità di studiare alternative di trattamento che non vengano influenzate dalla presenza di varianti associate alla resistenza al baseline. Su questo aspetto ha cercato di fare luce l’analisi che ha raccolto, prima dell’avvio del trattamento, i dati relativi alla presenza di varianti della proteina NS5A. Ebbene, queste erano presenti nell’11 per cento dei pazienti con infezione di genotipo 1a e nel 19 per cento dei pazienti con genotipo 1b. Le successive valutazioni hanno consentito di confermare che il 100 per cento dei pazienti con Hcv di genotipo 1b e il 97 per cento di quelli con genotipo 1a ottenevano la risposta virologica sostenuta a 12 settimane dopo la fine del trattamento a prescindere dalla presenza o la presenta di varianti di NS5A. Questi risultati confermano che il trattamento con il regime [ombitasvir/paritaprevir/ritonavir con dasabuvir], in associazione o meno a ribavirina, ha permesso di ottenere tassi elevati di guarigione virologica nei pazienti con infezione da Hcv di genotipo 1a e 1b, a prescindere dalla presenza o meno di varianti associate alla resistenza di NS5A, ha concluso Christoph Sarrazin, professore di medicina presso l’azienda ospedaliera universitaria J.W. Goethe di Francoforte, Germania. Secondo gli esperti riuniti in Catalogna, le persone affette da epatite C cronica sono tra i 130 e i 150 milioni in tutto il mondo. Si stima che siano 15 milioni quelle che vivono con il virus Hcv nella regione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), pari al 2% della popolazione adulta. Esistono sei varianti virali dell’HCV e a livello globale il genotipo 1 è quello più diffuso ed interessa circa metà delle persone colpite dall’infezione. Ogni anno muoiono tra le 300 mila e le 500 mila persone per malattie legate all’epatite C, oltre 10 mila solo in Italia. Dalla fine del 2014 sono disponibili anche nel nostro Paese i nuovi farmaci antivirali diretti (DAAs), in grado di guarire dall’infezione in oltre il 90% dei casi e con un trattamento medio di 8-12 settimane. Proprio i nuovi ‘super-farmaci’ sono al centro di due lavori condotti in modo indipendente, uno italiano e uno spagnolo, che hanno registrato un elevato numero di ricadute in pazienti che avevano vinto la battaglia contro il carcinoma epatocellulare (HCC), la forma di tumore al fegato più diffusa, e che sono stati successivamente trattati con DAAs per eliminare il virus. La prima ricerca, uno studio retrospettivo di coorte condotto dal Dipartimento di scienze mediche e chirurgiche (DIMEC) dell’Università di Bologna i cui risultati sono stati presentati all’EASL, ha analizzato le cartelle cliniche di 344 pazienti con cirrosi epatica HCV correlata trattati con i nuovi antivirali per l’epatite C. La maggioranza delle persone coinvolte non aveva una storia di tumore al fegato, mentre 59 pazienti avevano avuto HCC ed erano stati sottoposti con successo a un trattamento (chirurgico, di radioablazione o di altro tipo) per liberarli dalla neoplasia. Al momento della terapia antivirale, quindi, queste persone erano disease free. ‘Il risultato dei DAAs è stato ottimale perchè il virus è stato eliminato in quasi il 90% di questi pazienti cirrotici’, commenta Stefano Brillanti, tra gli autori del lavoro. Il dato che ci ha un po’ spiazzato è che nei 59 pazienti che avevano avuto una storia pregressa di tumore al fegato, ben il 29% cioè 17 persone hanno sviluppato un nuovo cancro epatico nel breve lasso di tempo di 6 mesi dalla fine del trattamento antivirale, indipendentemente dal genotipo e dalla combinazione di DAAs utilizzata. Nonostante i cirrotici siano una categoria a rischio di sviluppare un cancro epatico, nella stragrande maggioranza dei casi senza una storia pregressa di HCC prima del trattamento antivirale l’incidenza, cioè la comparsa di nuovi tumori, è stata di circa il 3%, un risultato atteso. Al momento il gruppo bolognese non ha spiegazioni definitive sui risultati, che sono stati confermati in modo indipendente anche da un gruppo spagnolo. “Nei pazienti che hanno avuto HCC da cirrosi epatica legata al virus Hcv e che sono stati trattati per rimuovere il tumore, è possibile che abbattere rapidamente l’infiammazione dell’organo da un lato abbia un effetto favorevole in termini di funzionalità, ma possa paradossalmente indebolire le difese immunitarie nel fegato che potevano tenere sotto controllo le piccole cellule neoplastiche già nate, spiega Brillanti. Queste si trovano improvvisamente senza ‘secondini’ intorno che le tengono a bada ed esplodono. Non significa che la terapia antivirale abbia qualche rapporto con il cancro, non abbiamo trovato nessun rapporto tra il tipo di trattamento fatto e lo sviluppo del tumore”, precisa l’esperto, che invita a controllare maggiormente il paziente nei 3-12 mesi successivi alla terapia antivirale, perché se ha avuto un tumore epatico in passato rischia di poterne avere un altro nel fegato.
Clementina Viscardi