Sono 216.958, secondo i dati AIFA aggiornati al 14 dicembre, i pazienti affetti da Epatite C «avviati» al trattamento per l’eradicazione del virus. Un numero importante, ma su cui è necessario operare una riflessione. Il 30 dicembre 2019, ultimo rilevamento dello scorso anno, erano 201.734. Il 2020 si chiuderà dunque con poco più di 15mila nuovi pazienti, peraltro in buona parte trattati nelle prime settimane dell’anno, prima che scoppiasse la pandemia, e nell’ultimo trimestre. Proprio in questi mesi autunnali si sono svolti una serie di webinar per il Progetto Moon di AbbVie: infettivologi, gastroenterologi e internisti a confronto per affrontare lo stallo e proporre nuove strategie per il 2021. Un ulteriore stimolo è giunto proprio nelle ultime settimane, a seguito della firma da parte del Ministro della Salute Roberto Speranza, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, del Decreto attuativo per lo screening nazionale gratuito per il virus dell’Epatite C attraverso l’impiego dei 71,5 milioni di euro stanziati con l’emendamento al Decreto Milleproroghe lo scorso febbraio.
Quando è iniziato il Progetto Moon, i trattamenti avviati (dati del 21 settembre) erano 213.052: l’incremento negli ultimi tre mesi dell’anno è stato di quasi 4mila unità, segno di una piccola ripresa, rallentata dalla seconda ondata del Covid-19, che però non è sufficiente per perseguire con adeguata convinzione l’obiettivo di eliminazione dell’Epatite C dal nostro Paese entro il 2030 come indicato dall’OMS. Il risultato resta ancora possibile, soprattutto grazie all’innovazione garantita dai nuovi farmaci antivirali ad azione diretta (DAA), che permettono di eradicare il virus in maniera definitiva, in sole 8 settimane e senza effetti collaterali. Ancora prima dei trattamenti, devono essere realizzati gli screening, fondamentali per scovare il “sommerso” di coloro che non sanno di aver contratto il virus, che si stima tra i 200 e i 300mila soggetti. Per questo i relatori hanno messo a disposizione le loro diverse esperienze al fine di suggerire modelli da replicare tra le diverse regioni.
“Il trattamento per l’Epatite C oggi disponibile è semplice ed efficace, non ha effetti collaterali e porta all’eradicazione del virus anche in solo 8 settimane – affema il Prof. Nicola Coppola, Professore Ordinario di Malattie Infettive, Università della Campania L. Vanvitelli, Napoli – Questo trattamento semplificato garantisce un ovvio beneficio al paziente, ma anche a noi operatori del SSN, che possiamo realizzare più trattamenti in minor tempo. I vantaggi stanno emergendo soprattutto in questi difficili mesi di pandemia: se da un lato infatti dobbiamo far fronte a una consistente riduzione in termini di screening e trattamenti, parallelamente possiamo fare affidamento su un’azione rapida e incisiva nel momento in cui individuiamo i pazienti. Sarà molto importante valorizzare questi aspetti positivi: se infatti il vaccino contro il Sars-CoV-2 è in arrivo, la pandemia sarà completamente superata solo tra molti mesi, probabilmente non prima della fine del 2021. Dobbiamo dunque impegnarci a non interrompere i trattamenti e a riprendere quei processi di ricerca dei soggetti positivi all’HCV inconsapevoli della loro condizione. L’approvazione dei fondi per l’Epatite C deve rappresentare uno stimolo in più e uno strumento per impostare nuove strategie di screening. Per ogni key population (detenuti, PWID, migranti) servono progetti ad hoc in ogni regione, con una sinergia tra i diversi specialisti coinvolti e gli enti di riferimento di queste popolazioni. Lo screening nella popolazione generale deve invece appoggiarsi ai MMG, sentinelle primarie sul territorio”.
“Negli anni ’90-2000, l’Italia era uno dei Paesi dove c’era la massima diffusione al mondo di epatite C, con un tasso di positività vicino all’1,5/2% – sottolinea il Prof. Antonio Gasbarrini, Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Medicina Interna e Gastroenterologia, Policlinico Gemelli – Questo significava fino a 15mila decessi l’anno, visto che l’Epatite C ha tra le sue principali conseguenze la cirrosi epatica e l’epatocarcinoma, oltre a molteplici altre complicanze, come ricoveri per emorragie digestive o cefalopatia, senza contare che era la principale causa di trapianto del fegato. Solo di recente abbiamo assistito a una netta riduzione degli scompensi epatici dei tumori da Epatite C, a dimostrazione delle molteplici conseguenze negative di questa malattia. L’Epatite C quindi ha rappresentato un dramma non solo in termini umani e sanitari, ma anche a livello economico: i costi diretti, secondo uno studio dell’Associazione Italiana dello Studio del Fegato e dell’Università di Tor Vergata, arrivano a oltre un miliardo di euro l’anno. I costi indiretti sono difficilmente tangibili e complessi da stimare, in quanto sono legati all’alterazione delle performance lavorative, ma si pensi banalmente anche solo al numero di incidenti che può fare un paziente cirrotico che soffre di un’encefalopatia con calo di attenzione. Per queste ragioni, il nostro Servizio Sanitario Nazionale ha fatto l’investimento su queste nuove terapie, fondamentali sia per la salute dei soggetti, che per un risparmio economico”.
“Dopo aver visto la comparsa e il decorso dell’Epatite C, per molti di noi specialisti è stato possibile individuare alcune analogie dell’HCV con il Sars-CoV-2 – spiega il Prof. Alessio Aghemo, Direttore UO Medicina Interna ed Epatologia, Istituto Clinico Humanitas, Rozzano Milano – Entrambi i virus hanno presentato difficoltà di diagnosi nelle fasi iniziali e una complessità nell’accompagnare il decorso dei malati. Adesso dobbiamo approfittare di alcune circostanze emerse in questo periodo, come la telemedicina, e soprattutto potremo coniugare percorsi di screening per Covid ed Epatite C. In particolare, con l’imminente inizio della campagna vaccinale, ogni individuo dovrà essere sottoposto a test e analisi per valutare le proprie condizioni: in questa fase si potrebbe aggiungere il test per la sierologia dell’HCV al fine di identificare i pazienti affetti e avviarli al trattamento”.
Arianna Manzi