Favorito dalle tecnologie moderne, il lavoro da remoto e, in particolare, da casa (Smart Working) ha trovato nel tempo vari sostenitori che tagliano trasversalmente il mondo della produzione e quello della ricerca. Lavorare da casa, del resto, può essere un grande vantaggio così come può essere una vera iattura. Questo non dipende tanto dai compiti assegnati all’interessato o all’interessata in senso stretto, ma da una serie di fattori “ambientali” che secondo alcuni stanno soltanto intorno al lavoro, secondo altri, invece, ne costituiscono la colonna portante nel senso pieno del termine. Il lavoro non è soltanto “che cosa fai” ma non di meno “dove lo fai”, “in quali tempi”, “con quali strumenti”, “con chi lo fai”. Sale la predisposizione a considerare il lavoro come motivo di emancipazione. Nella coscienza di tanta gente comune il lavoro non è più un’attività che richiede di mettere a disposizione il proprio tempo, la propria testa e le proprie mani al servizio di questo o quel sistema organizzato in cambio di una remunerazione punto e basta; al contrario, oggi esso si misura con la possibilità che offre in termini di una crescita personale e collettiva. Per questo si affaccia la propensione di “abbandonare” il lavoro, anche ben retribuito, in gergo noto con il termine Great Resignation.
Lo Smart Working nel 2020 ha coinvolto quasi nove milioni di persone, nel 2021 più di sette milioni
Lo Smart Working (SW) si configura come un vero e proprio terremoto, che nel 2020 ha coinvolto quasi nove milioni di persone, mentre nell’anno successivo più di sette milioni; quasi tutti e tutte impreparati ad affrontare una nuova posizione nella propria organizzazione. La stessa impreparazione l’hanno affrontata le imprese e i sindacati, con la differenza che le prime hanno dominato la partita in campo; i secondi, di contro, l’hanno subita in assenza di strumenti per governarla o, semplicemente, per adattarla alle gravissime condizioni date nel biennio esiziale della pandemia. La responsabilità della pandemia non è di nessuno, vale a dire di tutti. La responsabilità delle misure attuate per mitigare gli effetti negativi nel mondo della produzione è da ricercare sia nelle organizzazioni produttive, che hanno avuto il compito di escogitare soluzioni – o, quantomeno, forme d’intesa possibili con le parti in causa – sia nelle organizzazioni sindacali per tutelare le situazioni più deboli e i soggetti più vulnerabili.
Lo Smart Working dovrebbe essere concepito come un diritto dei lavoratori e delle lavoratrici
Lo SW che abbiamo conosciuto fin qui non è il rimedio di tutti i mali, bensì soltanto un escamotage approssimativo e temporaneo per tamponare le peggiori conseguenze della crisi pandemica. Da tre anni in avanti non mi sembra che siano stati fatti molti progressi: si è diffuso soltanto un modello ibrido che non ha portato i grandi cambiamenti auspicati. A tanti lavoratori e lavoratrici, dato lo shock pandemico, è stata offerta una via d’uscita, cioè sopravvivere stando nelle proprie case. Altri e altre hanno dovuto proseguire nelle industrie, rischiando la pelle: la propria e quella dei loro congiunti. Nei suoi studi Patrizio Di Nicola afferma che lo Smart Working dovrebbe essere concepito come un diritto dei lavoratori e delle lavoratrici, così come avviene in modo assai più liberale nei paesi del Nord Europa e, in particolare, nei paesi scandinavi. Stante il fatto che l’attenzione crescente al lavoro da remoto, anche dopo la fase acuta della pandemia, è un dato positivo, non lo è allo stesso modo per tutti i dipendenti, soprattutto se manca, invece, l’elemento della flessibilità organizzativa dei processi produttivi e, ancora più nel dettaglio, se manca pure la volontarietà della scelta, che di norma è pattuita sulla base delle esigenze dei/delle dipendenti di concerto con le istanze del management.
La principale difficoltà dello SW consiste nel proteggere i confini tra tempo di lavoro e tempo privato
Nel contesto italiano, studi svolti durante gli anni dello shock pandemico mostrano come il work-life balance sia percepito in modo apprezzabile dai soggetti che lavorano da remoto, tuttavia i suoi eventuali effetti positivi cambiano d’intensità secondo il tipo di situazione che si trovano a gestire i lavoratori e/o le lavoratrici. È soprattutto sul versante del work-life balance che le posizioni dei ricercatori si soffermano: molti sono concordi nel ritenere che la principale difficoltà dello SW consista nel riuscire a proteggere senza crepe di sorta i confini tra tempo di lavoro e tempo privato. Queste difficoltà hanno riguardato in modo drammatico soprattutto le lavoratrici, che denunciano enormi ostacoli nel conciliare le attività di moglie/madre/lavoratrice all’interno dello stesso ambiente fisico e in uno spazio temporale dove il lavoro invade, spesso, le altre ore della giornata, mandando a gambe all’aria il “diritto alla disconnessione” di cui tanto si parla (legge n. 81/2017, art. 19, comma 1).
Smart Working, una questione di genere
Non è un segreto per nessuno il fatto che le criticità connesse al work-life balance abbiano un peso differente in rapporto al genere d’appartenenza; questa è una questione oramai consolidata tra gli analisti del settore. Secondo alcuni, le varie forme di lavoro flessibile, tra cui il lavoro da remoto, tenderebbero a favorire l’occupazione femminile, poiché offrono alle donne margini più ampi nel conciliare il lavoro retribuito con il lavoro di cura, soprattutto in particolari fasi della carriera, ad esempio, in caso di maternità. Secondo altri, per converso, la discriminazione di genere insita nel lavoro flessibile finisce per cristallizzare piuttosto che scardinare le norme prevalenti che regolano i ruoli e le responsabilità di donne e uomini nel mercato del lavoro.
Lo SW non solo ha aumentato il carico di lavoro delle donne, ma ha lasciato riaffiorare il gender gap dei decenni trascorsi
Già dal 2020 l’ILO (The COVID-19 response: Getting gender equality right for a better future for women at work, ILO Policy brief, Geneva) ha ricordato in più occasioni che le implicazioni generali dello Smart Working sull’equilibrio tra sfera pubblica e sfera privata di donne e uomini dipenda da molti fattori, tra cui il contesto normativo vigente, la divisione del lavoro tra i sessi, la cultura organizzativa e d’impresa, le politiche e le consuetudini poste in atto dal datore di lavoro. Lo SW non solo ha aumentato il carico di lavoro delle donne, ma ha pure lasciato riaffiorare la configurazione di genere propria dei decenni trascorsi. Se anni di lotte hanno portato le donne a uscire da casa per andare negli uffici, nelle fabbriche, negli esercizi pubblici, lo SW le he riportate tra le mura domestiche. Di primo acchito, molte hanno avuto la percezione di una diminuzione dello stress dovuta agli spostamenti, ai tempi familiari, ai carichi riproduttivi. Con il passar del tempo, di contro, tante di loro hanno costatato che lo SW è in qualche modo assimilabile a nuovo compito “domestico”, privo di quella solidarietà sociale e relazionalità umana tipiche del lavoro fuori casa.
Le potenzialità dello Smart Working sono ancora tutte da esplorare, e forse i tempi sono maturi
Concludendo, il gioco delle parti in causa comporta un complesso carico di responsabilità dovuto alle scelte degli attori coinvolti. Imprese pubbliche e private hanno fatto la parte del leone con le loro iniziative, molteplici e diversificate, sospinte dall’emergenza pandemica, ma utili a salvare le persone dai rischi in corso e, non di meno, il sistema economico dal pericolo del collasso della produttività. In questo quadro il sindacato ha avuto un ruolo minore, ha giocato cioè soprattutto di rimessa, limitando i danni legati a politiche assai spregiudicate e ai tentativi di tornare indietro nel tempo. Le persone si sono difese come hanno potuto, ben sapendo che questo è un universo di situazioni molto differenziato, dove è difficile generalizzare le conseguenze subite, nella consapevolezza che non si è trattato di un gioco a somma zero. Ciò detto, le potenzialità dello Smart Working sono ancora tutte da esplorare, e forse i tempi sono maturi per andare più a fondo, ora che siamo lontani dall’emergenza pandemica.
*Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale, Sapienza Università di Roma.