L’Italia si colloca al terzo posto in Europa nella classifica dei paesi con maggiori disponibilità di acqua, dietro solo a Svezia e Francia; eppure, allo stesso tempo, siamo il paese con i maggiori consumi pro capite di acqua potabile e il secondo per consumi in agricoltura. Un altro paradosso, tutto italiano, che emerge chiaramente dallo studio realizzato dall’Istituto Eurispes sullo stato delle acque in Italia.
Nel nostro Paese ogni anno vengono prelevati oltre 30 miliardi di metri di cubi di acqua per tutti i tipi di usi. L’Italia è al primo posto tra i Paesi Ue per la quantità, in valore assoluto, di acqua dolce prelevata per uso potabile da corpi idrici superficiali o sotterranei, mentre in termini di prelievi pro capite, con 155 metri cubi annui per abitante, si colloca in seconda posizione, preceduta solo dalla Grecia (158) e seguita da Bulgaria (118) e Croazia (113). Anche andando a guardare i dati relativi ai consumi individuali di acqua dal rubinetto, gli italiani si dimostrano essere la popolazione meno virtuosa a livello europeo con oltre 220 litri pro capite consumati giornalmente contro una media europea di 123 litri di acqua per abitante al giorno. La Valle d’Aosta è la regione con i maggiori livelli di consumi individuali (438 litri per abitante al giorno) equivalenti a più del doppio della media nazionale mentre tutte le regioni del Nord, con l’eccezione del Veneto, presentano livelli di consumi superiori alla media. A livello regionale i valori più bassi si possono osservare in Puglia (155), Umbria (166), Toscana (171) e Basilicata (179).
Negli ultimi anni, numerosi studi riguardanti il ciclo dell’acqua hanno evidenziato una costante riduzione della quantità di acqua rinnovabile presente sul nostro territorio. Le proiezioni climatiche condotte da ISPRA evidenziano i possibili impatti a breve, medio e lungo termine dei cambiamenti climatici sul ciclo idrologico e sulla disponibilità di risorsa idrica. Il quadro delineato da questa analisi non è particolarmente rassicurante, dato che le stime sulla riduzione della disponibilità annua di acqua vanno da un minimo del 10% (proiezione a breve termine) nel caso si adotti un approccio di mitigazione aggressivo nella riduzione delle emissioni di gas serra, ad un massimo del 40% (che arriva fino al 90% per alcune zone del Sud Italia) nella proiezione al 2100 nel caso in cui i livelli di emissione dei gas serra mantengano gli attuali livelli.
In tema di risorse idriche la principale criticità nel nostro Paese riguarda la presenza di un sistema infrastrutturale antiquato e disfunzionale, concepito sulla base delle necessità degli anni Cinquanta. Sotto questo punto di vista l’esempio più emblematico riguarda le perdite idriche nella rete di distribuzione. Queste nel 2020, sono state pari al 42,2% del volume di acqua immessa, il che equivale ad una perdita pari a 3,4 miliardi di metri cubi di acqua ogni anno. Detta in altro modo, in Italia ogni giorno vengono buttati 157 litri al giorno di acqua per abitante pari al fabbisogno idrico di circa 43 milioni di persone. Al riguardo, esistono differenze sostanziali tra un Nord, tendenzialmente più virtuoso, e un Centro-Sud in cui permangono situazioni di grave criticità.
A livello regionale, infatti, le maggiori perdite avvengono in Basilicata (62,1%), Abruzzo (59,8%), Sicilia (52,5%) e Sardegna (51,3%), e, con l’eccezione delle Marche (34,3%) e della Toscana (41,6%), tutte le regioni centro-meridionali hanno livelli di perdite idriche superiori alla media nazionale. La situazione si ribalta al Nord dove le perdite idriche si attestano in media al 32,5% per il Nord-Ovest e al 37,8% per il Nord-Est.
Ancora più in dettaglio, nel 57% dei comuni italiani vi sono livelli di perdite superiori al 35% dei volumi di acqua immessi in rete. In poco meno della metà di questi le perdite arrivano addirittura a superare il 55%. Tra i comuni capoluogo di provincia/città metropolitana solamente cinque hanno perdite in volume inferiori al 25% dell’acqua immessa in rete e sono: Milano (17,6%), Aosta (23,9%), Ravenna (24%), Ascoli Piceno (24,2) e Pavia (24,9%). Mentre sono dieci quelli con perdite superiori al 60%: Latina (73,8%), Belluno (70,6%), Frosinone (69,5%), L’Aquila (68,3%), Potenza (63,9%), Ragusa (63%), Crotone (61,6%), Benevento (61,5%), Oristano (60,3%) e Siracusa (60%).
L’ammodernamento e il rifacimento della nostra rete idrica è forse uno degli elementi più urgenti da affrontare per recuperare almeno una parte dei 3,4 miliardi di metri cubi che ogni anno vengono letteralmente dispersi nell’ambiente. D’altro canto, risulta difficile aspettarsi alti livelli di efficienza da una rete civile che per il 60% risale ad almeno trent’anni fa. Di questa quota, inoltre, il 25% avrebbe superato i 70 anni di vita mentre in diversi centri storici italiani vi sarebbero ancora tubature risalenti al periodo post-unitario.
Diventa pertanto sempre più urgente adottare misure di adattamento ai cambiamenti climatici che favoriscano un uso più razionale ed efficiente delle risorse a nostra disposizione. In questo contesto bisogna prendere atto del fatto che la crisi idrica, sperimentata in diverse aree del Paese, non sia dovuta solamente ad una carenza, spesso momentanea di materia prima, ma sia piuttosto una crisi infrastrutturale dovuta alla mancanza di impianti e reti adeguate sull’intero ciclo dell’acqua. Al riguardo basti pensare come l’Italia potrebbe recuperare, attraverso la depurazione e il riuso delle acque reflue, circa 8,5 miliardi di metri cubi di acqua (poco meno di un terzo dell’acqua consumata annualmente) da destinare all’agricoltura e all’irrigazione dei campi.
A partire dal 2012 si è assistito ad un graduale e costante aumento degli investimenti nella rete idrica che sono passati dai 32 euro per abitante del 2012 a 49 euro per abitante nel 2019, a 56 euro/abitatane nel 2021. Questa tendenza sembrerebbe essere confermata dalle stime relative al biennio 2022-2023 quando si dovrebbero raggiungere i 63 euro per abitante. Nonostante l’andamento crescente, il livello di investimenti continua ad essere ampiamente al di sotto della media europea. A livello europeo, infatti, i fornitori di servizi idrici investono ogni anno, tramite la riscossione di tariffe, all’incirca 45 miliardi di euro in infrastrutture, equivalenti, in media, a poco meno di 82 euro per abitante all’anno. Andando ad analizzare i livelli di spesa dei singoli paesi europei emerge come la Norvegia con 226 euro per abitante l’anno sia il paese che investe maggiormente in infrastrutture idriche, seguito dalla Gran Bretagna con 135 euro/abitante e dalla Svezia con 109 euro. In Germania ed in Francia invece la spesa media per abitante si attesta rispettivamente a 80 e 88 euro.
Per la quantità di investimenti in infrastrutture idriche si delinea un’Italia a tre velocità: nel 2021 il livello di investimenti al Centro è stato di 75 euro per abitante, seguito dal Nord-Est con 56 euro, dal Nord-Ovest con 53 e dal Mezzogiorno dove ci si è fermati a 32 euro. Il dato relativo al Sud si spiega principalmente con il fatto che in quest’area del Paese continuano a dominare i servizi di gestione in economia (in cui gli enti locali si occupano direttamente della gestione del servizio idrico). Il 79% comuni italiani in cui la gestione di almeno uno dei servizi è in economia si trova al Sud ed in questo tipo di gestioni gli investimenti annui si fermano a 8 euro per abitante l’anno. Infine, va evidenziato come la capacità di investimento sia strettamente collegata al livello tariffario che, nel nostro Paese, resta tra i più bassi d’Europa. Dai dati relativi al biennio 2017-2109 emerge come la spesa media sostenuta da una famiglia italiana fosse di circa 320 euro l’anno, equivalenti a meno di un euro al giorno. Anche in questo caso le cifre sono decisamente più basse dei 500 euro a famiglia pagati in Francia e Gran Bretagna o degli oltre 900 euro annui pagati da un nucleo familiare norvegese.
In assenza di investimenti che possano favorire la captazione, l’immagazzinamento, il trasporto, la distribuzione, la depurazione e il riuso delle acque si rischia di cronicizzare il problema rendendo la mancanza d’acqua una questione strutturale, come, tra l’altro, sta avvenendo in altre aree del pianeta. Questo rischio è già evidente al Sud, dove la fatiscenza o la totale assenza delle reti (si pensi ad esempio ai livelli di dispersione idrica nel Mezzogiorno o alla mancanza di allacci al sistema fognario in parte della Sicilia), sommate all’apparente incapacità degli Enti gestori di effettuare gli investimenti necessari, creano condizioni di stress idrico, spesso aggravate dalla mancanza di disponibilità della risorsa.