‘’Non è stato Romano Prodi a portare l’Italia nell’euro”. Giulio Tremonti in un’intervista dell’Agenzia Vista svela chi e percé decise l’entrata del nostro Paese nella moneta unica, vent’anni fa. L’ex ministro dell’Economia smonta, pertanto, la ricostruzione ufficiale che dà al papà dell’Ulivo il “merito”, o il demerito, averci condotto nell’euro. Dice Tremonti:
“Ricordo bene come mi disse un grande presidente svizzero – ha rivelato in collegamento all’evento: Noi e l’euro: 20 anni di storia, organizzato da Assoeureca.eu -. Che i banchieri tedeschi non volevano l’Italia nell’Euro e che gli industriali tedeschi temevano un’Italia fuori dall’euro e competitiva”. In altre parole, all’epoca faceva paura alla Germania un’Italia fuori dalla moneta unica e competitiva sui mercati. Tremonti vuole dire che a decidere cosa dovesse fare l’Italia non furono Roma o a Bruxelles, quanto a Berlino. E per motivi tutt’altro che favorevoli al nostro Paese.
Ribadisce Tremonti: “si pensava che un’Italia fuori dall’euro sarebbe stata troppo competitiva”. Gli anni successivi hanno poi avuto il compito di dimostrare come il piano tedesco abbia funzionato; con la prima crisi finanziaria che ha travolto il mondo, ma soprattutto l’Eurozona e gli Stati più fragili, Grecia in primis.
Vent’anni tutti da buttare? Tremonti risponde: “L’ingresso nell’euro dell’Italia ha sicuramente dato stabilità. Ma il grande errore politico è stata la stupidità delle politiche Ue. La globalizzazione è entrata in Europa trovandola impreparata. L’Ue ha creato un’infinità di regole per le imprese, imprese in competizione con imprese senza alcuna regola”. E a venire stritolate sono state soprattutto quelle italiane.
“Con l’euro lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno di più”. La frase, pronunciata nel 1999 dall’allora presidente del Consiglio, Romano Prodi, è ormai entrata nelle pagine dei libri di storia. La realtà, dopo 20 anni, pare però decisamente diversa. Si lavora uguale (se si lavora meno è perché purtroppo alcune attività non ci sono più o hanno delocalizzato), si guadagna uguale, ma si spende di fatto di più perché è aumentato il costo della vita. Ecco perché i 20 anni dell’euro che si celebrano in questi giorni, si presentano con tante ombre e poche luci. Era il 1 gennaio del 2002 quando l’euro iniziò a circolare con banconote e monete nelle tasche dei cittadini di 12 Paesi dell’Unione europea.
Romano Prodi non andò troppo per il sottile. Impose agli italiani persino la famosa euro-tassa, poi parzialmente rimborsata dal successivo governo Berlusconi
Una conversazione davvero istruttiva. Se non altro, ci fa capire quale democrazia abbiano in testa i cantori delle magnifiche sorti e progressive dell’Unione europea con la loro pretesa di dividere in buoni e cattivi leader.
“Venti anni sono lunghi da passare, ma non bastano a farci dimenticare lo choc dell’entrata in vigore della moneta unica, alla quale ci siamo dovuti abituare volenti o nolenti. A quel tempo collaboravo con Panorama, quando era un periodico importante. Il direttore mi inviò a Bruxelles per descrivere i festeggiamenti. Invece dell’euro sembrava che si celebrasse l’Immacolata Concezione. I presenti alla manifestazione furono inondati da un fiume di retorica europeista. Si diceva che eravamo in procinto di entrare nel paradiso terrestre. Io ascoltai tutti i pistolotti caramellosi delle cosiddette autorità e ne riferii nel mio scettico reportage”. Feltri parte dal suo caso personale, ma l’esempio è calzante: “Ora sono avvezzo all’euro e non brontolo più. Ma al suo esordio ero schifato e spiego i motivi. All’epoca avevo un stipendio invidiabile, 30 milioni di lire, e mi sentivo abbastanza ricco. A un certo punto il mio compenso si trasformò in 15 mila euro, ed ebbi la sensazione che avrei avuto le pezze sul sedere. Ero pessimista e non sbagliavo di tanto. Infatti dalla sera alla mattina, i prezzi di ogni merce furono raddoppiati”.
E’ sotto gli occhi di tutti che il tenore di vita pro capite di gran parte della popolazione dell’Eurozona, oggi è mediamente più basso rispetto al 1999. La percezione che le cose stavano sfuggendo di mano fu rapida e è difficile negarlo. “Alcuni esempi. Il biglietto del metro a Milano raddoppiò di incanto. Ma fin qui, amen. La pizza, che costava 5 mila lire, all’improvviso la pagavi 4 euro, cioè 8 mila delle vecchie lire”. Nel giro di pochi mesi le tariffe commerciali salivano del cento per cento. “Questa non è una opinione, bensì la realtà. Dirò di più, i poliziotti della mia scorta che fino a poco tempo prima percepivano un salario di un milione e 800 mila euro, incassarono 1000 euro, con i quali a Milano campi sì e no dieci giorni”. Insomma, il giudizio è severo: “Eravamo di fronte a una solenne fregatura”.
“Trascorrono anni, la nostra economia frenata dalla globalizzazione imperfetta, annaspa, ma la colpa della frenata viene attribuita a fattori nazionali, non certo al “miracoloso” euro. Transeat”. La cosa peggiore, forse, è la forza del’abitudine: “La gente si adatta a tutto, perfino ai nostri governi campioni nell’incrementare sistematicamente il debito pubblico: per cui si è bevuta perfino le banconote continentali. E oggi, a distanza di quattro lustri dalla tragedia, avvezzi al peggio, lo abbiamo digerito e il suo amaro sapore ci va giù liscio come olio. Il popolo si adatta a tutto, anche alle peggiori vessazioni e a un dato momento non protesta più”. Analisi amara quella di Feltri. Con un affondo finale: “Abbiamo una grande risorsa: la rassegnazione a vivere in un Paese in cui il popolo è più serio di chi lo guida attraverso un sistema istituzionale barbaro”.