Il governo Meloni eredita un dossier Ilva gestito in modo fallimentare, che ha portato la società in una situazione molto difficile dopo dieci anni di immobilismo e scelte discutibili. Scelte alle quali Fratelli d’Italia in passato si è sempre opposta. Ricordiamo la presentazione nel 2019 di un emendamento per il ripristino dello scudo penale per ArcelorMittal.
La ricostruzione della vicenda Ilva fa parte di un dossier curato dall’ufficio studi di Fratelli d’Italia, curato dal gruppo parlamentare di Camera e Senato. “La vicenda Ilva e le responsabilità del governo Conte”. Restano le responsabilità macroscopiche del M5S che lo studio di FdI mette nero su bianco. A suffragio del quale arrivano le parole di Carlo Calenda, ex ministro dello Sviluppo Economico, e titolare per un periodo del dossier Ilva. Punta il dito contro il Movimento 5 Stelle, indicandolo come responsabile della attuale crisi. “Il governo Meloni – ha scritto Calenda su X – non ha alcuna responsabilità sulla crisi di Ilva. La crisi di Ilva nasce quando è stato fatto saltare un accordo blindato, siglato a seguito di una gara europea: prima confermato e poi disfatto da Conte e compagni per compiacere la Lezzi dopo il pessimo risultato delle europee. Come dichiarai allora “Ia storia di Ilva finisce oggi. Nessun investitore verrà a mettere soldi in un paese che cambia ex post regole e norme”. La fine era dunque nota da quattro anni, conclude Calenda.
Nello studio di FdI che ripercorre la storia travagliata dell’Ex Ilva si ricordano alcune “follie” del M5S. Barbara Lezzi, all’epoca ministro del Sud in prima linea per l’abolizione dello scudo penale per l’ex Ilva di Taranto, si era distinta per aver pronunciato delle frasi. Che restituiscono la cifra della serietà con cui veniva affrontato il problema di uno dei principali stabilimenti industriali d’Italia. Le dichiarazioni furono riportate dalle cronache del 2019; quando il M5S non faceva altro che cambiare idea sulla gestione del dossier: prima a favore della chiusura del polo, poi il via libera al bando poi la violazione degli accordi con ArcelorMittal”. All’epoca erano in ballo 14mila posti di lavoro a rischio e di 4,2 miliardi di investimenti già stanziati. Nonostante ciò la ministra grillina diceva con leggerezza sconcertante: “È giusto che Taranto contribuisca al Pil nazionale, ma non solo con il siderurgico: può farlo anche con altri investimenti che guardino al futuro. È una bella città di mare di cui si parla solo per l’ex Ilva, ma ha, per esempio, una lunga tradizione nell’attività di mitilicoltura, che non può essere dimenticata”. Insomma, per la Lezzi un colosso industriale da 2 miliardi di fatturato poteva essere sacrificato. Perché tanto l’economia locale avrebbe potuto reggersi sugli allevamenti di cozze. “Ad avere posizioni così estreme (e dissennate) all’epoca non era solo la ministra Lezzi: Gianpaolo Cassese, deputato M5s tarantino, minacciava di dimettersi se una volta al governo Di Maio non avesse immediatamente chiuso l’Ilva”.
Nello studio si prendono le mosse da lontano e si illustra l’attenzione che il partito della Meloni ha sempre posto su uno dei poli industriali più rilevanti. Queste le tappe: “Il Governo a febbraio 2023 ha finanziato con 680 milioni di euro l’Ilva per garantire la continuità aziendale – si legge-. La forma utilizzata è un prestito soci. Ad agosto 2023 la società completa gli interventi del Piano ambientale e con il governo definisce un piano di decarbonizzazione. A novembre 2023 la società approva un nuovo piano industriale comprensivo di 3,7 miliardi per la decarbonizzazione”. Il seguito è cosa nota: definire le misure di rafforzamento patrimoniale per superare la crisi di liquidità di breve periodo. “Completare l’acquisto degli impianti e realizzare il piano industriale comprensivo degli interventi per la decarbonizzazione”.
Come sappiamo l’ incontro con l’amministratore delegato di ArcelorMittal, Aditya Mittal, appena pochi giorni fa, si è concluso con il rifiuto dei vertici dell’Ilva della proposta dell’esecutivo. “La delegazione dell’esecutivo ha proposto ai vertici dell’azienda la sottoscrizione dell’aumento di capitale sociale: pari a 320 milioni di euro. Così da concorrere ad aumentare al 66% la partecipazione del socio pubblico Invitalia, unitamente a quanto necessario per garantire la continuità produttiva”. Dopodiché il governo ha preso atto della indisponibilità di ArcelorMittal ad assumere impegni finanziari e di investimenti”. Pertanto in campo ci sarebbero tre ipotesi: “la liquidazione volontaria, considerata impercorribile; la possibilità di un codice di crisi d’impresa che salvaguarderebbe lavoratori e capitale; oppure l’amministrazione straordinaria che il socio pubblico può chiedere in maniera autonoma. E che consentirebbe di conservare il patrimonio produttivo del polo siderurgico”.
Ancora una volta il governo di Giorgia Meloni tenterà di porre rimedio ai disastri ereditati. È assurdo che chi ha causato il problema oggi punti il dito contro chi sta cercando di risolverlo. Il governo farà ogni sforzo per far sì che l’impatto della crisi sia il più limitato possibile. Ma è chiaro che l’attuale situazione è figlia di impegni presi e impegni mancati nel passato: quando si è venuti meno ad accordi che erano stati fatti precedentemente. Mettendo la questione su un binario che rendeva praticamente impossibile un recupero.
Sull’ex Ilva «c’è l’urgenza di un intervento drastico che segni una svolta netta rispetto alle vicende per nulla esaltanti degli ultimi 10 anni». Così il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, nel corso di una informativa al Senato. «Siamo in un momento decisivo che richiama tutti al senso di responsabilità. Nulla di quello che era stato programmato e concordato è stato realizzato. Nessuno degli impegni presi è stato mantenuto in merito agli impegni occupazionali e al rilancio industriale. In questi anni la produzione si è progressivamente ridotta in spregio agli accordi sottoscritti». Per Urso «perfino negli anni in cui la produzione di acciaio era altamente profittevole in Europa, come nel 2019, è stata mantenuta bassa lasciando campo libero ad altri attori stranieri. Intendiamo invertire la rotta cambiando equipaggio. Ci impegniamo a ricostruire l’ex Ilva competitiva sulla tecnologia green su cui già sono impegnate le acciaierie italiane, prime in Europa». L’impianto secondo Urso «è in una situazione di grave crisi. Nel 2023 la produzione si attesterà a meno di 3 milioni di tonnellate, come nel 2022, ben sotto l’obiettivo minimo che avrebbe dovuto essere di 4 milioni, per poi quest’anno risalire a 5 milioni».
Il governo intende sviluppare «un piano siderurgico nazionale» costruito su quattro poli complementari «attraverso un progressivo rinnovamento, modernizzazione e specializzazione degli impianti esistenti» di Taranto, Terni, Piombino e le acciaierie del Nord Italia. Citato in primis Taranto «che dovrà riaffermare il ruolo di campione industriale, con una filiera produttiva con l’intero ciclo, dal minerale al prodotto finito». Poi Terni, dove «lavoriamo sul solco di quanto fatto dal mio predecessore Giorgetti, per il rafforzamento della produzione di acciai speciali, con un contratto di programma che dovrebbe essere definito entro febbraio». Il terzo polo è Piombino, «con le enormi potenzialità, in particolare sulle rotaie che fin qui ha sottoperformato e che ora registra l’interesse – oltreché del soggetto presente – di potenziali nuovi investitori stranieri con i quali ci apprestiamo a sottoscrivere un memorandum di intesa per il riavvio della produzione di acciaio». Da ultimo, «ma primo per importanza di produzione, il supporto alle acciaierie, soprattutto nel Nord, che stanno portando avanti con successo una svolta green senza precedenti, modello di efficienza sostenibile in Europa a cui dobbiamo dare atto dei grandi sforzi fatti».