Per molti è la ragione dietro l’impennata delle quotazioni del Bitcoin. Per molti altri, è il tentativo di Mark Zuckerberg di allargare la propria sfera d’influenza sul settore economico-finanziario.
Libra, la criptovaluta voluta dall’ideatore di Facebook, dovrebbe consentire agli utenti di Facebook, WhatsApp, Instagram di scambiare denaro tra di loro, e pagare per acquisti effettuati su decine di piattaforme. Le ambizioni di Zuckerberg, però, sembrano essere ben altre: vorrebbe trasformare Libra in una sorta di “moneta franca” mondiale, che miliardi di persone possono scambiare liberamente tra di loro via smartphone. Insomma, un’alternativa digitale al dollaro statunitense, ma più facile da inviare e (teoricamente) al sicuro da ladri e truffatori.
Come detto, la produzione e la conservazione di Libra non richiederanno la stessa potenza di calcolo – e lo stesso consumo di energia – dei Bitcoin, ma questo non vuol affatto dire che sarà ecosostenibile. Secondo i dati diffusi da Facebook, il funzionamento della criptomoneta – e i suoi consumi – sono equiparabili a quelli dei datacenter nei quali vengono conservati i siti web e altre informazioni accessibili via Internet. Queste strutture hanno consumi inferiori rispetto alle farm nelle quali vengono creati i Bitcoin, ma non sono a “emissioni zero”.
E quello delle emissioni di gas serra, causate dalla produzione di energia, potrebbe non essere neanche il pericolo più grave per l’ambiente. Da anni, infatti, Facebook è impegnata in un’azione per rendere maggiormente ecosostenibili i propri data center. L’energia utilizzata, nella gran parte dei casi, è prodotta da fonti rinnovabili e non fossili, mentre vengono realizzati in luoghi particolarmente freddi per contenere costi ed emissioni legate al raffreddamento dei server. Quando ciò non è possibile, però, ci si affida a sistemi di raffreddamento ad acqua (simili ai radiatori delle auto, insomma), causando così spreco di questo prezioso liquido.
Il lancio di Libra, previsto per il 2020, potrebbe spingere Facebook a realizzare nuove tipologie di data center, ancora più “verdi” di quelli che già oggi realizza. Se così non dovesse essere, “l’impronta ecologica” della criptovaluta made in Menlo Park potrebbe essere davvero considerevole.