Figlia rifiuta due lavori: storica sentenza sulla “paghetta”

La 22enne aveva fatto ricorso contro il padre che aveva smesso di versarle l’assegno di mantenimento e a cui i giudici avevano dato ragione

La Corte di Cassazione ha respinto il reclamo di una giovane che voleva riavere l’assegno mensile di mantenimento dal padre. Gli Ermellini hanno stabilito che il ricorso della 22enne, figlia di una coppia divorziata, è “manifestamente infondato” nonostante la giovane età. Anche il Tribunale di Gorizia e poi la Corte di Appello di Trieste si erano espressi sulla stessa linea, respingendo le pretese della ragazza.

La 22enne aveva rifiutato per ben due volte delle proposte di lavoro. La prima quella di segretaria nello studio legale del padre, dicendo di aver trovato impiego come cameriera. Tuttavia anche quest’ultima iniziativa non era andata in porto, e per questo il genitore aveva deciso di fermare i pagamenti dell’assegno mensile di mantenimento.

Nonostante il “percorso professionale ancora in itinere”, la Corte di Cassazione ha confermato le sentenze del Tribunale e della Corte di Appello, che avevano sottolineato che la causa del mancato raggiungimento dell’indipendenza economica della giovane era da imputarsi esclusivamente a lei stessa.

Aveva infatti “ingiustificatamente rifiutato plurime offerte di lavoro” nonostante mancasse una qualsiasi prova di sue “particolari inclinazioni o attitudini” o addirittura la volontà di perseguire altri percorsi, non avendo mai espresso “precise aspirazioni professionali“. Che avrebbero dovuto portarla a compiere “e a seguire con costanza, una diversa e coerente scelta progettuale alternativa”.

Niente assegno mensile di mantenimento: la sentenza storica della Cassazione

Il verdetto della Corte di Cassazione spiega che l’assegno di mantenimento non deve perseguire una funzione assistenziale incondizionata per i figli maggiorenni disoccupati con contenuto e durata illimitata. L’obbligo di corresponsione viene meno nel caso in cui il mancato raggiungimento dell’indipendenza economica si può ricondurre alla mancanza di un impegno effettivo verso un progetto formativo o dipende esclusivamente da fattori oggettivi o strutturali legati all’occupazione o al mercato del lavoro.

In buona sostanza i giudici hanno sottolineato che l’assegno di mantenimento è dovuto solo nel caso il figlio maggiorenne stia studiando all’università o facendo un corso di formazione professionale, o non possa lavorare per impedimenti reali dovuti alle proprie condizioni di salute, ad esempio, o a un mercato del lavoro particolarmente difficile in cui è oggettivamente difficile trovare un’occupazione.

La 22enne ha dunque perso il ricorso contro il padre, che ora non dovrà più versare la quota mensile di 300 euro a favore della figlia. Dovrà invece continuare a farlo per il figlio 18enne, per cui ne aveva chiesto la revoca a causa dello scarso rendimento scolastico e per il ritiro da scuola al quarto anno, per le assenza e per le note disciplinari, oltre che i suoi comportamenti “inadeguati e ingiustificati”.

La Corte d’Appello e la Corte di Cassazione hanno stabilito che la condotta morale del ragazzo non può influire sull’obbligo legale di mantenimento. L’assegno gli spettava di diritto perché, nonostante il ritiro, alla fine era stato ammesso all’ultimo anno delle superiori. Ora “c’è la possibilità che completi gli studi“, e quindi per la legge ha diritto a essere supportato dal genitore.

La sentenza della Corte di Cassazione arriva dopo quella dello stop al mantenimento per i figli “bamboccioni”.

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