La convinzione è che il suo improvviso tramutare il 20 maggio la «fornitura» in «donazione» — limitata però ai 49.000 camici e 7.000 set sanitari sino allora già forniti, e senza più ulteriore consegna alla Regione dei restanti 25.000 camici pur pattuiti all’inizio dal contratto — sia stata non una sua scelta generosa, ma un trucco pianificato sulla scorta di «una rassicurazione ottenuta per il tramite di un accordo stabilito altrove». Sinora, infatti, si credeva che l’ipotesi di reato di «frode in pubbliche forniture» (contestata ai tre) valorizzasse il fatto che, dopo la donazione, Dini avesse cercato di rivendere i 25.000 camici per rientrare in parte del mancato profitto al quale aveva rinunciato con la mail delle ore 11.07 del 20 maggio ad «Aria spa»: «Come anticipato per le vie brevi, la presente per comunicare che abbiamo deciso di trasformare il contratto di fornitura in donazione. Certi che apprezzerete la nostra decisione, vi informiamo che consideriamo conclusa la nostra fornitura».
Dai primi riscontri della Gdf è completa la partita di circa 25 mila camici, sequestrati alla Dama spa, l’azienda di cui è amministratore delegato Andrea Dini, cognato del governatore della Lombardia Attilio Fontana, entrambi tra gli indagati dalla Procura di Milano per frode in pubblica fornitura.
I camici, ora custoditi come corpo del reato in un magazzino nella disponibilità dell’autorità giudiziaria, costituiscono il lotto non consegnato della fornitura ad Aria, centrale d’acquisto della Regione Lombardia, di 75 mila pezzi che l’azienda che detiene il marchio Paul&Shark, ha trasformato in corso d’opera in donazione per rimediare al ‘pasticcio’ venuto a galla per via del conflitto di interessi.
Il Nucleo speciale di Polizia Valutaria della Guardia di Finanza, che è stato fino all’una di notte nella sede della ditta, ha sequestrato inoltre documentazione contabile e corrispondenza e le comunicazioni tra Dini e gli uffici di Aria spa, la centrale acquisiti regionale e la Regione stessa.
Completati gli accertamenti per avere la certezza definitiva che si tratta davvero della partita non consegnata e che Dini ha tentato, senza riuscirci, di rivendere, qualora si decidesse di donarli vista la loro necessità per l’emergenza Coronavirus, i pm sono disposti a dare il nulla osta per il loro dissequestro.
Ora in mano ai pm c’è un whatsapp di Dini («Ciao, abbiamo ricevuto una bella partita di tessuto per camici. Li vendiamo a 9 euro, e poi ogni 1000 venduti ne posso donare 100») nel quale alle ore 8.58 di quel 20 maggio, due ore prima di formulare per la prima volta l’offerta alla Regione di trasformare la fornitura in parziale donazione e contestuale riduzione della restante fornitura, Dini già «offriva in vendita» alla interlocutrice commerciale E.R. «i camici non consegnati ad Aria spa, a riprova di una rassicurazione ottenuta per il tramite di un accordo divisatosi aliunde».
Dini cercava di vendere i 25.000 camici già due ore prima di proporre alla Regione la donazione, e dunque a maggior ragione senza nemmeno sapere se la Regione l’avrebbe poi accettata, cosa che formalmente non accadrà mai, era perché Dini era già sicuro, per sottostanti accordi con qualcuno in Regione, di poter contare sul fatto che la Regione non pretendesse più i 25.000 camici restanti. Ovvio che il whatsapp avrebbe questo valore solo se offerti fossero davvero stati quei camici della fornitura regionale, e non altri: ascoltata come teste, il 18 giugno la donna ha rafforzato questa interpretazione dei pm, aggiungendo che invece in aprile Dini le aveva detto «di dover vendere alla Regione» in forza di «un contratto in via esclusiva».
Fontana voleva ‘risarcire’ il cognato il 19 maggio con un bonifico di 250.000 euro, «segnalata sospetta» da Unione Fiduciaria e bloccata: dal conto svizzero Ubs «a nome della fiduciaria italiana» a «un conto omnibus intestato alla fiduciaria presso la Banca Popolare di Sondrio», e da qui alla società di Dini. Senza mai che Fontana comparisse in «un trasferimento formalmente disposto da una società fiduciaria.