Giorgia Meloni, autentica portabandiera dell’eurorealismo che dice ‘no’ agli eurocaminetti

Ue, nel post nomine da Roma a Bruxelles, dalle forze di governo ai conservatori in Europa, chi è vicino alla premier Giorgia Meloni non ha dubbi sulla linea di condotta e le scelte della premier: «È il suo schema di gioco preferito, quello che le riesce meglio. Come col governo Draghi, ma anche col Conte uno: nessun sostegno, ma con la schiena dritta sui punti cardine dell’agenda, come sull’Ucraina». Barra a dritta e avanti tutta insomma: dopo l’esito e la risposta sulle nomine al Consiglio europeo – col no ad Antonio Costa e Kaja Kallas, ma la mano tesa a Ursula von der Leyen – la linea del presidente del Consiglio non avrà contraccolpi sul ruolo dell’Italia nella prossima Commissione europea.

«Avremo quel che ci spetta», è la convinzione. Certo, da qui al 18 luglio – data della Plenaria che, salvo sorprese, dovrebbe incoronare Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione, consegnandole il bis – davanti alla premier ci sono giorni complessi, di strategie e trattative sotto traccia. Con l’obiettivo fermo di portare a casa una vicepresidenza e un commissario con un portafoglio di peso. Raffaele Fitto? «Sì, è sempre in pista, ma è chiaro che un eventuale ruolo deve rispecchiare la partita che il ministro sta giocando in casa da un anno e mezzo ormai». Ovvero Pnrr, coesione territoriale e nuovi strumenti finanziari in capo all’Unione.

Se altri attori con posizioni simili a Meloni vincono nei rispettivi Paesi questo può aiutare la premier.  Tra le prime, il sostegno all’Ucraina, un rapporto con la Cina concordato con gli americani, la partecipazione alle decisioni Nato. Tra le seconde, una politica più forte e costruttiva in Nord Africa, una maggiore collaborazione europea su difesa e immigrazione, indebolimento di regole e normative demenziali e irrealistiche sull’ambiente e sulla concorrenza. Il contributo del nuovo “sovranismo di governo” dovrebbe essere quello di una integrazione europea selettiva, soltanto su ciò che è davvero utile ai Paesi membri perché sovranazionale per natura o per necessità dello scenario geopolitico».

C’è, per contro,  l’atteggiamento isterico e incoerente delle opposizioni – e del Pd in particolare – nei confronti della decisione di Giorgia Meloni di dire un «no» di sostanza, nel metodo e nel merito, al “caminetto esclusivo” che ha deciso i top jobs europei prima ancora di sedersi nel Consiglio europeo. Per un partito, quello guidato oggi da Elly Schlein, abituato a governare senza mai vincere un’elezione può sembrare “bizzarra”, infatti, l’idea di chi applica nella realtà effettuale tutto ciò che ha assicurato in campagna elettorale: la richiesta, reiterata alla luce del responso delle urne, del cambio di approccio e di agenda senza il quale l’Ue è destinata a restare schiacciata nel Grande gioco dei nuovi/vecchi imperi.

«Ma non era mai successo prima», «L’Italia isolata in Europa», obietta scandalizzato  il soccorso rosso  – a proposito del «sì» che i governi italiani hanno assicurato a tutte le Commissioni di Bruxelles fin dalla notte dei tempi. Con i “signorsì” si è dato spago, soprattutto da Maastricht in poi, a diversi fenomeni: il rafforzamento della casta burocratica e autoreferenziale di stanza a Bruxelles; l’espansione ipertrofica degli egoismi dell’asse franco-tedesco; la conseguente disaffezione, quando non profonda avversione, delle opinioni pubbliche nazionali nei confronti del progetto comunitario.

La proposta di Giorgia Meloni allora, per ciò che riguarda il metodo e il merito, è proprio questa: spezzare l’Europa dei club e dei circoletti, per re-innestare il principio comunitario e cooperativo figlio legittimo dei Trattati. Un principio rivisto e corretto ai nuovi e stringenti scenari internazionali: che richiedono un’Europa interventista sullo scacchiere geopolitico e non sullo stile di vita dei suoi cittadini e delle sue imprese. Su questo fronte, già nell’ultima fase della Commissione Ursula e grazie proprio alla vivace pressione del governo italiano, qualche timido segnale c’è stato: tutto l’opposto dell’agenda rosso-verde del Green Deal, dell’austerità liberale e del dirigismo sospinto dagli esecutivi del centro-nord.

L’idea allora di ripartire esattamente dalla stessa casella d’inizio, dall’intesa Ppe, Pse e Liberali (con gli ultimi due grandi sconfitti nelle urne), con l’aggravante di voler cordonare i Conservatori (co-vincitori insieme al Ppe) e legare l’Italia e la sua premier a un pacchetto già chiuso dalle due anatre zoppe (Emmanuel Macron ed Olaf Scholz), è stata rispedita al mittente. Non per orgoglio ma per precisa responsabilità, perché quell’intesa politicamente non è rappresentativa del responso delle urne. Sia nell’equilibrio delle forze, Ecr è ufficialmente il terzo partito europeo, sia nella proiezione dei governi nel prossimo Europarlamento, con l’esecutivo Meloni unico fra i grandi a uscire promosso dai cittadini.

Tutto è datato il 18 luglio prossimo: quando la presunta Grosse Koalition dovrà provare a far valere i suoi numeri risicati (399 deputati zeppi di franchi tiratori, altro che trionfo) per la rielezione di Ursula von der Leyen. È chiaro anche agli stolti che le alternative saranno due: rivolgersi ufficialmente ai Verdi, con la conseguente reazione furiosa delle opinioni pubbliche nazionali nei confronti di chi consegnerà le rispettive economie nelle mani dell’elettrico cinese. O chiedere il sostegno a Giorgia Meloni e alla sua agenda: ossia ciò che corrisponde al mandato popolare, maggioritario ben oltre le già trionfanti destre europee, al di là delle geometrie a porte chiuse.

Ma anche qui per la leader di FdI-Ecr sarà una «questione di qualità»: dettata sulle cose da fare, sui programmi. Dossier su dossier. «Avremo quel che ci spetta», è la convinzione. Certo, da qui al 18 luglio – data della Plenaria che, salvo sorprese, dovrebbe incoronare Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione, consegnandole il bis – davanti alla premier ci sono giorni complessi, di strategie e trattative sotto traccia. Con l’obiettivo fermo di portare a casa una vicepresidenza e un commissario con un portafoglio di peso.  Una proposta e un nome, quello di Fitto, che anche il vicepremier Tajani sposa senza remore: «Nessuno pensa che al nostro Paese non spetti un portafoglio di grande importanza e una vicepresidenza della Commissione europea. Sarebbe un commissario» europeo «eccellente», suggerisce Tajani: «Ha grande esperienza come ministro delle Politiche comunitarie e come parlamentare europeo» e a Bruxelles serve qualcuno che «conosce i meccanismi e gli uffici». La decisione – precisa poi – «spetta al Consiglio dei ministri».

 

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