Il direttore di Libero, Alessandro Sallusti, ai microfoni di Otto e Mezzo, il talk show condotto da Lilli Gruber su La7, spiegava quale potrebbe essere il futuro di Giorgia Meloni. La Gruber fa una domanda precisa: “La leader di Fratelli d’Italia può diventare presidente del Consiglio?”. La risposta di Sallusti è molto chiara: “La Meloni può diventare primo ministro. Se gli italiani la voteranno, come credo faranno vedendo i sondaggi, può diventare assolutamente primo ministro”.
Poi l’affondo su Conte: “È diventato premier un avvocato sconosciuto che ora si ritrova per le mani un partito crollato che non sarà mai suo, non capisco perché non possa diventare primo ministro Giorgia Meloni”.
A questo punto il direttore di Libero ha esplicitato meglio il suo ragionamento: “Un premier che vuole governare in Italia deve sapere che bene che gioca in Champions e non all’oratorio in cui si va via con la palla in mano se le cose vanno male. Ci sono degli equilibri economici, geopolitici che esistono. Non siamo un’isola, non siamo una enclave, oggi se vuoi governare in Italia devi comportarti da Champions”. Poi, sempre Sallusti, ha spiegato i motivi del gelo di Salvini e Berlusconi su una eventuale leadership del centrodestra targata Meloni: “Io credo che sia più un fattore umano che politico. Uno non si decide a passare la mano, l’altro è arrivato a un passo dal controllare tutto ed è stato risucchiato, quindi credo che il motivo sia puramente umano…”.
Fratelli d’Italia, il partito dato in testa a tutti gli altri dai sondaggi, non si è rivelato per il resto del centrodestra di governo (Lega e Forza Italia, che evidentemente hanno anche pagato un prezzo per essersi assunti la responsabilità di entrare nell’esecutivo Draghi) davvero trainante, soprattutto al Nord. Questo nulla toglie all’ottima performance di FdI che, come ricorda Giorgia Meloni, ha trainato molte importanti vittorie della coalizione al primo turno e non solo. E, con lei, lo rimarca il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, cofondatore di FdI. Ma, soprattutto al Nord, la forza di FdI descritta come magnetica da tutti i giornali mainstream non si è rivelata tale, pur avendo FdI superato la Lega.
Insomma, non solo non si è registrato il potere attrattivo, forse irripetibile, di Silvio Berlusconi dei tempi d’oro, ma neppure quel traino degli alleati da parte della Lega di Matteo Salvini a oltre il 30 per cento con il quale il “capitano” riuscì in varie imprese. Come quelle considerate impossibili, tipo espugnare lo storico fortino rosso dell’Umbria, che sarà pure un fazzoletto di terra, ma dal valore altamente simbolico. Così come ora però un valore altamente simbolico la ha, all’ inverso, la sconfitta di Verona, ex roccaforte del centrodestra.
Ovviamente, in Umbria così come a Verona, esempi rovesciati, hanno giocato molteplici fattori. Ma il punto resta per il centrodestra, come ha ribadito Berlusconi, attrarre quella fascia di elettorato che fa la differenza: “Le divisioni allontanano gli elettori. Servono candidati di centro, moderati”. Difficile non cogliere nelle parole del Cav un implicito riferimento alla scelta di ricandidare Federico Sboarina a Verona, il sindaco allora uscente ora ex voluto con forte determinazione da FdI, il suo partito. Salvini ha anche lui puntato l’indice contro le divisioni e il fatto che il centrodestra abbia scelto “di non allargarsi e includere altre forze e energie, per calcolo, paura o interesse”. Uscite dure che probabilmente alludono alla scelta di Sboarina di rifiutare l’apparentamento con Flavio Tosi. Il quale, comunque, pur dando atto a Salvini di aver lavorato lealmente per l’unità , ha poi riaperto l’antica e tutta veneta polemica con il governatore Luca Zaia accusato di non averlo aiutato, ma Zaia è stato difeso a spada tratta con una nota dalla segreteria di Via Bellerio.
Ma andiamo oltre Verona, il punto resta per il centrodestra quello di fare centro con i cosiddetti “moderati”, quella borghesia media e anche medio alta ormai, vista la crisi economica, di imprenditoria privata e professionisti che non si ritrova in un Pd, in una sinistra statalista pro-tasse e ancora giustizialisti. Il risultato di queste ultime Amministrative, comunque complessivamente vinte dal centrodestra con 58 Comuni superiori a fronte di 54 andati al centrosinistra, e in particolare quello dei ballottaggi che ha sfavorito invece il centrodestra, dimostra che il pur giusto atlantismo da un lato del Pd di Enrico Letta e dall’altro di FdI di Meloni è insufficiente a ridisegnare quel nuovo bipolarismo, o qualcosa di diverso con un ipotetico centro, finora celebrato dai giornali mainstream. Da un lato perché il Pd vince in un quadro di fortissima astensione, lasciando aperte tutte le incognite sul fatto se il campo sarà davvero largo, dall’altro lato sul fronte opposto il destra-centro con FdI primo partito ha rivelato di non avere quel baricentro indispensabile per la vittoria alle Politiche del 2023. Le differenze tra FdI e centrodestra di governo (Lega e FI) si sono registrate su battaglie liberali bandiera della coalizione, come i referendum sulla riforma della giustizia. Fuori da ogni ipocrisia, all’impegno di Lega e Radicali, promotori della consultazione, ai ripetuti appelli del Cav, del numero due di FI, Antonio Tajani, oggettivamente non ha corrisposto la stessa intensità di impegno da parte di FdI che era per il Sì a 3 dei 5 quesiti, mentre Lega e FI per 5 Sì. Se FdI e il Pd, che era per il No, tranne eccezioni, ha trasformato nei fatti quel No in un’astensione, si sarebbero anche loro mobilitati, in un senso o in un altro, probabilmente non ci sarebbe stato il flop.
Restano 20 milioni di elettori andati alle urne. In molti casi sono fasce borghesi, ceto medio alto, imprenditoriale, manageriale, i cosiddetti “moderati” arrabbiati anche per il funzionamento della giustizia e la burocrazia che blocca crescita e sviluppo. Difficilmente potranno essere operazioni di Palazzo a dar vita a quel centro fatto a tavolino che come entità autonoma, appunto, non esiste. C’è poi il problema dell’abbassamento della pressione fiscale o comunque quello di stoppare tasse nuove, cosa per la quale Lega e FI si sono battuti al governo e con loro FdI in parlamento. Seppur FdI in generale abbia un approccio più statalista rispetto a FI e Lega. Ma andando divisi, scossi da lotte di leadership, una cosa è certa: non si fa centro.
Salvini, rispondendo alla richiesta di Meloni, si è detto pronto al vertice e “a fare squadra”. Perché la posta in gioco sono le Politiche del 2023, per le quali “si parta subito con il programma”. Intanto, il leader leghista ha blindato la ricandidatura di Attilio Fontana, governatore della Lombardia. Con lui, in una foto sorridente e eloquente. Accanto Giancarlo Giorgetti, la cosiddetta anima governista che, secondo la narrazione mediatica, gli starebbe contro, e il segretario lombardo Fabrizio Cecchetti. Messaggio di chiusura alla “disponibilità” di Letizia Moratti, cui Salvini aveva già detto di no. Ma evidentemente anche sfida per l’alleata Meloni. La Lombardia è l’epicentro delle scosse telluriche del centrodestra.