Giorgia Meloni e il campo largo senza leadership che punta sull’ottantacinquenne Prodi

Giorgia Meloni, dal palco di Atreju, respinge al mittente l’accusa che gli era stata rivolta da Romano Prodi, che le dà dell’“obbediente”, ma se qui c’è un obbediente fedele e ossequioso, quello è l’establishment della sinistra italiana, costretto, in mancanza di meglio, a rinverdire uno come Prodi, goffo tentativo di sopperire a una grave mancanza di idee, ma soprattutto di leadership.

La Schlein, a parte le uscite estemporanee sui singoli temi del giorno, si può esibire in null’altro che in una affannosa rincorsa nei riguardi della “potenza” della Meloni, oggi certificata a livello internazionale.
Con i suoi 85 anni suonati in molti pensano che Prodi sia anche il padre politico della Schlein, che “l’ha vista nascere” e che gli deve l’elezione a segretaria del Pd. Niente di male, ci mancherebbe, ma di molto insolito per la bacchettoneria sinistrorsa. Si abbia almeno il coraggio di riconoscere che si tratta di una leadership a tutti gli effetti politica, se non addirittura antropologica, in grado comunque di sostituirsi a quella meramente formale del Pd. Una leadership obbedita per l’ossequiosa fedeltà che si deve ai patriarchi.

Giorgia Meloni disegna un immaginario che cammina con l’azione della sua leader, e lo fa a uso interno, con quel «Berlusconi che ha creato la coalizione di centrodestra sarebbe orgoglioso del milione di posti di lavoro creati da questo governo», come segno di continuità ideologica e operativa con quell’idea di coalizione che nasce sì con Berlusconi ma è radicata nel Paese, a prescindere dal leader che ne porta il testimone. Non è Meloni che diventa berlusconiana, ma è la conferma che c’è una coalizione che esiste e vive nel segno di una continuità ideale e coerente.

Poi, dall’altra parte, c’è Romano Prodi. Ma non in quanto arci-nemico di Berlusconi, ma come simbolo di un potere politico e della sua interpretazione. «Ipse dixit Romano Prodi: l’establishment adora Meloni perché obbedisce. Voglio dire a Romano Prodi – dice la premier dal palco – che diverse cose che ha fatto nella sua vita, dalla svendita del’Iri a come l’Italia entrò nell’Euro, passando per il ruolo determinante nell’ingresso della Cina nel Wto, dimostrano che di obbedienza se ne intende parecchio. Da persone come lui abbiamo imparato che obbedire non porta bene né alla Nazione né all’Europa, e Prodi è esempio massimo della casta del potere di sinistra, “protetto” dalla narrazione giornalistica e accademica – degli altri poteri, appunto – che ha giustificato ogni suo passaggio e ogni sua scelta.

Prodi diventa quindi simbolo di ciò che non va fatto proprio ora che la politica europea è a un bivio decisivo, per il ruolo che la stessa Meloni immagina per sé e per l’Italia con la nuova presidenza Von der Layen e fuori dai confini europei. Dopo Iri, euro e debolezze nei confronti di Germania e Francia, Prodi diventa la cartina di tornasole di cosa non fare oggi con la Cina nel gioco dei rapporti tra potenze in un mondo multipolare, vista la grande vicinanza tra la Cina e il professore di Bologna.

Prodi oggi è una figura perdente e il centrosinistra perde proprio perché è figlio – e culturalmente ancora succube – della stagione prodiana, quelle delle ammucchiate uliviste e dei disastri europei sulla moneta unica e non solo. Del prima gli altri, gli italiani poi…

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