Stop all’ergastolo ostativo è stato il primo provvedimento approvato del governo di Giorgia Meloni.
La notizia, qualche mese fa, scatenò alcune polemiche, con l’Unione delle Camere penali che parlò di “evidenti e gravi profili di incostituzionalità” prima di tutto per la mancanza dei “supposti motivi di urgenza”.
I penalisti dicono che il decreto provocherà un “un inammissibile peggioramento del quadro normativo in tema di ostatività e accesso alle misure alternative alla detenzione”. Ma cosa si intende per l’ergastolo ostativo e perché l’intervento “mantiene i mafiosi in carcere” come dicono da Fratelli d’Italia.
Per ergastolo ostativo si intende un tipo di regime carcerario che riguarda i condannati all’ergastolo per i reati previsti dall’articolo 416-bis del codice penale. Si tratta di mafia, ma anche terrorismo ed eversione. La modifica all’ordinamento è stata introdotta nel 1992, dopo gli attentati a Falcone e Borsellino. Il regime carcerario conosciuto anche come “fine pena mai”, prevede l’impossibilità di accedere a riduzioni della pena, permessi premio o di lavoro e altri benefici penitenziari.
L’unico modo per potervi accedere è collaborare in maniera attiva alla giustizia, fornendo elementi reali e concreti che portano a svolte investigative. Contemporaneamente, però, i detenuti devono partecipare a percorsi di reinserimento.
Si differenzia dall’ergastolo normale perché quest’ultimo prevede, se la persona mantiene buona condotta e partecipazione agli stessi percorsi di reinserimento (senza collaborazione attiva con la giustizia), riduzioni di pena, permessi di lavoro o premio, misure alternative al carcere.
A maggio dello scorso anno la Corte Costituzionale era intervenuta con una sentenza secondo cui l’ergastolo ostativo va contro gli articoli 3 e 27 della Costituzione, quelli che prevedono la finalità rieducativa del carcere e che la legge sia uguale per tutti. Secondo la Consulta l’ergastolo ostativo creerebbe delle differenze tra i detenuti che vengono condannati all’ergastolo per reati diversi.
La presidente del Consiglio Meloni ha voluto evitare che un parere negativo della Corte portasse ad abrogare questo regime carcerario, facendo accedere i condannati per mafia e terrorismo ai benefici penitenziari anche senza collaborare con la giustizia.
L’intervento, quindi, dà accesso ai benefici penitenziari solo a chi ha dimostrato di avere “una condotta risarcitoria” e di aver cessato i “suoi collegamenti con la criminalità organizzata”. Insomma, una misura che circoscrive, ma mantiene l’ergastolo ostativo, con l’obiettivo di recepire quanto chiesto dalla Corte, senza eliminare questo regime carcerario. Probabilmente la Corte non potrà opporsi, almeno immediatamente, innanzitutto per questioni formali e di procedura.
Il primo consiglio dei ministri di Giorgia Meloni, come detto, è intervenuto in modo urgente sull’ergastolo ostativo, inserendolo in un decreto legge. La scelta di utilizzare questo provvedimento, che ha come requisiti la necessità e l’urgenza, serve a impedire che la Corte costituzionale emetta la sentenza di incostituzionalità della norma, prevista dall’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario.
In realtà, però, l’ultimo giudizio spetterà comunque alla Consulta, che farà le sue valutazioni sul nuovo decreto legge.
La Consulta, però, ha stabilito che fare «della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo». Secondo il report del Garante Nazionale delle persone private della libertà, in Italia i detenuti ostativi sono 1259, che corrispondono al 70 per cento degli ergastolani totali.
Il decreto legge approvato dal Cdm, almeno secondo la bozza anticipata da Public Policy, prevede che i benefici penitenziari non siano più condizionati esclusivamente alla collaborazione.
Tuttavia, il detenuto in regime di 4bis che non ha collaborato potrà accedere ai benefici solo se adempie ad alcune specifiche condizioni: dovrà dimostrare di aver «adempiuto alle obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna» o dimostrare «l’assoluta impossibilità di tale adempimento» allegando «elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo» e «alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza».
Nella valutazione, che mira a verificare che il detenuto non abbia più collegamenti attuali con la criminalità organizzata e con il contesto nel quale ha commesso il reato e che non ci sia il pericolo di un ripristino di tali collegamenti, si terrà conto anche »delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile».
Infine, verrà valutata anche l’esistenza di iniziative del detenuto a favore delle vittime, sia in forma di risarcimento che di percorso di giustizia riparativa.
Il decreto legge prevede anche che i detenuti per reati connessi all’associazione di stampo mafiosa, di scambio politico-elettorale di tipo mafioso, violenza sessuale, su minore e di gruppo, tratta illecita di migranti, traffico illecito di sostanze stupefacenti, induzione e sfruttamento alla prostituzione minorile e pornografia minorile non potranno comunque essere ammessi alla liberazione condizionale se non hanno scontato almeno due terzi della pena temporanea o almeno 30 di pena, in caso di condanna all’ergastolo.
Il dl specifica anche che le previsioni introdotte sono retroattive: si applicano quindi ai condannati che hanno commesso il reato “ostativo” prima dell’entrata in vigore del decreto.
Sullo strumento dell’ergastolo ostativo nel tempo si son appuntati dubbi e rilievi, anche in sede europea. Ma l’attuale governo intende difenderlo, come ha dimostrato con il suo primo decreto legge, varato a fine ottobre dello scorso anno con lo scopo di disinnescare una pronuncia della Corte Costituzionale che avrebbe potuto avere come conseguenza l’uscita dal carcere di capiclan. Ora la sua sorte è nelle mani della Cassazione, a cui la Consulta ha restituito gli atti perché valuti se le sue osservazioni sull’illegittimità costituzionale delle norme siano state superate dalla nuova disciplina introdotta dal governo.
In origine, l’ergastolo ostativo impediva la concessione di qualunque beneficio penitenziario ai condannati in assenza di collaborazione con la giustizia. Nel 2019 si sono però aperte le prime crepe, con la Corte europea dei diritti dell’uomo che ha stabilito che la limitazione prevista per chi non collabora è contraria alla Convenzione sui diritti umani che vieta trattamenti inumani e degradanti, chiedendo all’Italia di modificare la legge. Poi è stata la Corte costituzionale ad aprire ai permessi premio per i boss, a condizione che sia provato che abbiano reciso i loro legami con la criminalità organizzata e purchè sia dimostrata la loro partecipazione al percorso rieducativo. La questione principale l’ha infine posta alla Consulta qualche tempo dopo la Cassazione, che sulla scia di questa sentenza dubita che sia rispettosa della Costituzione la preclusione assoluta della liberazione condizionale per i boss.
La Corte costituzionale, ad aprile del 2021, ha stabilito che questo divieto assoluto è incompatibile con la Costituzione, ma si è fermata a un passo dalla decisione, dando un anno di tempo al Parlamento per intervenire, termine che sarà ulteriormente prorogato senza che si arrivi a una nuova legge. Quando la deadline era imminente, il governo Meloni ha quindi varato un decreto per impedire le “scarcerazioni facili” e ha dettato le nuove regole: per accedere ai benefici penitenziari i condannati per reati di mafia che non collaborano con la giustizia dovranno aver riparato il danno alle vittime e dimostrare di aver reciso i rapporti con i clan, allegando “elementi specifici”, che consentano “di escludere l’attualità di collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, con il contesto nel quale il reato è stato commesso”
“Potrei sbagliare, ma la cattura di Matteo Messina Denaro mi è sembrata una ‘consegna’ dopo una lunga trattativa più che il risultato di un blitz al termine di una complessa indagine. La dinamica dell’arresto, tra l’altro, non ha avuto nulla della spettacolarità di altre importanti operazioni di polizia. Le manette, la fretta del trasferimento, la processione di macchine, le divise e le armi, scene consuete in casi come questo, non si sono viste. Pareva che accompagnassero in prigione una signorina e non un importante criminale per quanto malandato. Il futuro dirà se ho ragione”. Viene da lontano, forse dall’estero, la voce di Leonardo Messina, ex boss di mafia, collaboratore di giustizia dal ‘92, principale accusatore di Andreotti e di un esercito di oltre 200 persone tra politici, imprenditori e faccendieri. “O forse è stato venduto da un pentito”, aggiunge col tono gelido di chi torna improvvisamente con la mente al torbido mondo dell’onorata società, quando anche lui viveva di ordini da impartire, di missioni da eseguire, di armi da usare e di silenzi da rispettare.
“È vero, un successo dello Stato ottenuto non so attraverso quali meccanismi e quali eventuali contropartite. È storia vecchia, anzi vecchissima ed è successo con il bandito Giuliano, con Riina, con altri. Matteo Messina Denaro ha seri problemi di salute, la latitanza è dura almeno quanto il carcere e non sempre chi ti protegge è disposto a dare una mano a una persona che necessita di cure importanti e che, anche per questo, è un uomo sostanzialmente ‘perduto’, e cioè senza speranze. Non escludo che passata l’eco della sua cattura cominci a collaborare ovviamente in cambio di qualche vantaggio. Se c’è chi trema? Vediamo”.
“In pratica, nulla. Lui non era il capo dei capi. Quella figura, da vero Padrino, attualmente non esiste. Era, però, un importante, ambizioso stragista deciso a farsi strada attraverso un percorso di sangue. Tutti i mafiosi sono spietati, anch’io lo sono stato, è la regola. Non faccia caso ai miei modi gentili e al fatto che potremmo mangiare le tagliatelle insieme, siamo tutti sanguinari. Lui era un esecutore più che un organizzatore. Adesso, e prima di prendere un’iniziativa, la Cupola valuterà la consistenza del suo sottocapo e degli altri uomini che gli sono stati più vicino”.
“Non l’ho conosciuto personalmente, ma conosco bene il suo passato. Abbiamo in parte lo stesso cognome, ma non siamo parenti. È figlio di un boss morto latitante e molto protetto politicamente. Alla scomparsa del padre non ne ha ereditato il potere, perché la mafia non è un regno. È diventato, però, capo mandamento di Trapani, e cioè responsabile delle comunità di alcuni centri alle dirette dipendente della Commissione Interprovinciale”.
“Col tempo il suo ruolo ha preso consistenza, omicidio dopo omicidio, strage dopo strage. Così è diventato un boss. Ma un vero boss, un Riina, per esempio, non si muove di persona per piazzare una bomba allo stadio Olimpico di Roma, attentato poi fallito, e neppure per colpire Maurizio Costanzo, anche questo pure fallito, e per le bombe di Firenze e di altre località. Un vero capo decide, ordina e aspetta che l’azione venga compiuta. Quando Falcone venne condannato a morte io c’ero. La decisione fu presa in tre riunioni a Enna. Io ero responsabile della sicurezza e avevo piazzato gli uomini nei punti strategici della città pronti a intervenire nell’eventualità dell’arrivo dei carabinieri. Avevo un sofisticato congegno proveniente dal Giappone, grazie al quale intercettavo i dialoghi e le mosse dei militari. La ‘struttura’ mi comunicò il nome delle persone presenti e quindi da proteggere. In quell’elenco, Matteo Messina Denaro non c’era”.
“L’unica certezza è che non si è mosso dalla sua area operativa. Come tutti i boss suoi predecessori. Ha certamente effettuato qualche trasferimento, ma sempre in zona. Un capo per far funzionare la sua macchina non può allontanarsi, questa è la regola. È un po’ come il sindaco di un paese, ma vorrei aggiungere una considerazione”.
“Matteo Messina Denaro attualmente è un uomo fragile, gravemente malato. Non può più garantire certe sicurezze, ma nello stesso tempo è diventato un personaggio scomodo. La sua latitanza ha scatenato, da tempo, intercettazioni, tantissime, controlli, pedinamenti, interrogatori e posti di blocco. Con la conseguenza di pesanti disagi e di seri problemi per lo svolgimento dei mille affari della mafia. Con la sua cattura la struttura si è liberata di un peso. Sì, insomma, ormai inservibile, se lo sono levati dalle scatole”.
L’arresto di Matteo Messina Denaro è stato un colpo pesante per Cosa Nostra. L’arresto è figlio solo ed esclusivamente del grande lavoro di indagine delle forze dell’ordine e soprattutto del Ros dei carabinieri. Di fatto però immediatamente si sono scatenate le tesi complottiste di chi “sapeva già tutto”, di chi dice “l’hanno preso dopo 30 anni” e di chi afferma “era malato, si è consegnato”. Parole che offendono, come ha sottolineato il premier Giorgia Meloni, tutte le forze dell’ordine che hanno lavorato e continuano a lavorare mettendo a rischio la propria vita per combattere Cosa Nostra. Ed è in questo filone che si inserisce la testimonianza di Salvatore Baiardo, ex picciotto dei fratelli Graviano. Al Fatto racconta: “Sì lo hanno arrestato, lo sto guardando in diretta, ma non è una novità per me”.
Poi ha aggiunto una frase piuttosto inquietante che farà certamente discutere: “Sì, ma è già dieci giorni che ce l’hanno in mano. Pensavo lo dicessero ieri che era la cattura di Riina e invece hanno aspettato un giorno in più”.
E le sue dichiarazioni sono state anticipate anche in un’intervista conMassimo Giletti: “Quando lo Stato deciderà di volerlo prendere lo prenderà. Presumo che sia una resa sua, tutti cambiamo in 30 anni. E ancora: “Magari chi lo sa che avremo un regalino, che magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato, che faccia una trattativa lui stesso di consegnarsi e faccia un arresto clamoroso e così arrestando lui esce qualcuno che ha l’ergastolo ostativo senza che ci sia clamore”. Parole che aprono interrogativi, ma che di fatto rientrano in quell’onda complottista dove a manette chiuse si dice di tutto e di più. Quella voglia di farsi del male tipica del nostro Paese anche davanti a risultati clamorosi da parte dello Stato.