Giorgia Meloni, tra deficit e spese, per la sua manovra coraggiosa…

Da sempre le manovre economiche di fine anno servono a uno scopo: usare i margini di deficit consentiti per spendere un po’ di più, così da incrementare la crescita rispetto a quella che si sarebbe verificata senza alcun intervento. Ci sono state solo alcune eccezioni, e solo perché l’Italia doveva dimostrare ai creditori, coloro che ci comprano i titoli di Stato, di esser capace di stringere la cinghia un po’ di più, facendo diminuire deficit e debito per rimanere solvibili.

Normalmente la finanziaria è un compromesso tra maggiore crescita e maggiore indebitamento. La sfida è cercare di massimizzare la prima senza esagerare il secondo. Senza scordare l’influenza fondamentale che hanno i fattori esterni, come ha dimostrato la pandemia.

Ed è interessante capire l’orientamento e le scelte di campo dei governi guardando quanto gli stessi puntino a modificare l’andamento dei principali indicatori economici (disavanzo, debito, crescita del Pil, appunto) passando dallo scenario definito tendenziale, quello che si verificherebbe senza alcuna manovra, a quello programmatico, ovvero quello risultante dagli interventi governativi.

‘Una manovra «coraggiosa» e «coerente con gli impegni presi con gli italiani’, è  una manovra coraggiosa, perché scommette sul futuro’, ha rivendicato il premier, chiarendo dunque che anche le politiche di sostegno a imprese e famiglie hanno una portata che non si limita a tamponare le difficoltà dell’oggi, ma che punta a investire sul domani e che tutto il governo si è mosso in questa direzione, senza cedimenti a «piccole questioni» o «egoismi». Dunque, una manovra fortemente improntata a una precisa «visione politica», che ha dettato le «priorità» sulle quali «concentrare le risorse». In pratica una manovra che getti le basi di un lavoro di legislatura,  chiarendoche anche le politiche di sostegno a imprese e famiglie hanno una portata che non si limita a tamponare le difficoltà dell’oggi, ma che punta a investire sul domani e che tutto il governo si è mosso in questa direzione.

Il governo di Giorgia Meloni in parte pare voler proseguire sulla linea di quelli precedenti prevedendo per il 2023 un peggioramento del saldo primario (la differenza tra entrate e uscite senza gli interessi) dell’1,1 per cento, non lontano da quello dell’1,2 per cento dell’anno scorso e di quello dell’1,3 per cento di due anni fa. Nello specifico andrà da un valore positivo del 0,7 per cento, quello che avremmo visto senza manovra, a uno del -0,4 per cento.

Prima del Covid i governi precedenti erano stati più prudenti, stimando scostamenti di solito inferiori al punto per l’anno successivo, tranne il governo giallo-verde, che nel 2018 per il 2019 ne aveva programmato uno analogo a quello attuale.

È degno di nota il peggioramento del rapporto debito/Pil. Secondo le previsioni governative sarà dell’1,3 per cento, il maggiore degli ultimi anni, visto che crescerà dal 143,3 per cento al 144,6 per cento. E sarebbe ancora più ampio se come riferimento ci fosse il dato tendenziale stimato dal governo Draghi agli sgoccioli, un mese prima.

In sostanza il governo Meloni lascerà crescere il debito più di quanto altri esecutivi avessero fatto in precedenza. In cambio di cosa? Questo è il punto.

L’impressione è che il governo Meloni voglia continuare a essere generoso in termini di spesa come quello Draghi, anche in presenza di condizioni macroeconomiche ben diverse.

Nel 2023, però, a causa dell’inflazione galoppante e della criminale invasione russa dell’Ucraina l’Italia tornerà ai vecchi ritmi, a una crescita asfittica, dello zero virgola (se non a una recessione), come era stato a lungo prima del Covid. Ci arriverà, però, con un debito e un deficit più alti, con una previsione di peggioramento dei conti pubblici più ampia di quelle che venivano fatte prima.

La legge di bilancio, ha ricordato il premier, «cuba complessivamente 35 miliardi di euro» e vede al centro «due grandi priorità: crescita, che significa mettere in sicurezza il tessuto produttivo, premiare chi si rimbocca le maniche; e giustizia sociale», con «attenzione alle famiglie, ai redditi più bassi e alle categorie più fragili». «Solto contenta – ha chiarito – del lavoro fatto e dell’approccio da bilancio familiare: quando ti occupi del tuo bilancio e le risorse mancano non stai a preoccuparti del consenso, ma di cosa sia giusto fare per far crescere la famiglia nel migliore dei modi, si fanno delle scelte e ci si assume delle responsabilità».

Entrando nel merito delle misure assunte, Meloni ha ricordato come la gran parte delle risorse, 21 miliardi, sia stata convogliata sul caro energia, per «mettere in sicurezza il tessuto produttivo e le famiglie». In questo ambito, per le imprese il governo ha confermato e aumentato i crediti d’imposta, che passano dal 40% al 45% per le aziende energivore e dal 30% al 35% per le aziende non energivore. Per le famiglie ha allargato la platea di quelle che possono beneficiare dell’intervento dello Stato per calmierare le bollette, innalzando la soglia Isee da 12mila a 15mila euro. «È una misura per le famiglie più bisognose» che cuba circa 9 miliardi, ha ricordato il premier, spiegando inoltre che sono stati eliminati gli oneri impropri, è stata prorogata fino a marzo l’Iva al 5% sul gas ed è stata ridefinita la norma sugli extraprofitti, per superare gli elementi di contestazione che esistevano e recuperare 2,5 miliardi di euro, innalzando l’aliquota dal 25% al 35%.

«Molta attenzione» è stata poi riservata al tessuto produttivo, per il quale la linea politica è stata quella di incentivare e premiare il lavoro, coerentemente con gli impegni assunti in campagna elettorale. Nella manovra ci sono 3 tasse piatte. La prima sui redditi incrementali: il 15% sul maggiore utile conseguito con soglia massima di 40mila euro. «Una misura – ha chiarito Meloni – rivolta al ceto medio, non per un favore ai ricchi, ma per riconoscere valori e sacrifici». La seconda per gli autonomi, con la soglia al 15% innalzata fino a 85mila euro. La terza per i lavoratori dipendenti, che potranno godere di una tassa al 5% sui premi di produttività fino a 3mila euro. «Questa misura fa il paio con l’estensione dei fringe benefit già approvata», ha aggiunto il premier.

Il lavoro è, in generale, il comparto cui il governo ha dedicato maggiori risorse: lo stanziamento più ingente, dopo quello per l’energia, è sul taglio del cuneo fiscale. Si tratta di 4,5 miliardi di euro destinati a confermare il taglio del 2% per i redditi fino a 35mila euro e aggiungere un 1% in più per quelli fino a 20mila, che quindi potranno contare su un 3% complessivo. I benefici della misura saranno interamente «lato lavoratore» e confermano l’attenzione del governo per i redditi più bassi. C’è poi la prima applicazione del programma che in campagna elettorale Meloni sintetizzava con lo slogan “più assumi, meno paghi”: contribuzione azzerata per chi assume donne, giovani fino a 36 anni o percettori di reddito di cittadinanza. Ma, ha chiarito Meloni, «vale per i nuovi contratti», perché la misura punta a creare maggiore occupazione o maggiore stabilità, anche con la trasformazione di contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Introdotti, inoltre, buoni lavoro fino a 10mila euro in agricoltura, comparto Oreca e valori domestici, e rinviate la plastic e la sugar tax.

Oltre alla parte che cerca di tamponare i danni della crisi energetica, obbligatoria e in gran parte mutuata dal governo Draghi, siamo davanti a scelte politiche, forse sarebbe meglio dire ideologiche, che accontentano l’elettorato di riferimento senza creare le condizioni per una maggiore espansione dell’economia.

L’unica eccezione è una limitata decontribuzione per i giovani. Non genera un aumento della crescita l’estensione della flat tax per le partite Iva fino a 85mila euro, né l’aumento della soglia dei contanti e lo stralcio di alcune caselle esattoriali, tanto meno quota 103 e la modifica di Opzione Donna.

La manovra prevede anche un intervento di «tregua fiscale» per cittadini e imprese che in questi ultimi anni si sono trovati in difficoltà economica anche a causa delle conseguenze del Covid e dell’impennata dei costi energetici. Prevede la cancellazione delle cartelle fino al 2015 che hanno un importo inferiore a mille euro, la rateizzazione dei pagamenti fiscali non effettuati nel 2022 senza aggravio di sanzioni e interessi per chi a causa di emergenza Covid, caro bollette e difficoltà economiche non ha versato le tasse. È prevista una mini sanzione del 5% sui debiti del biennio 2019-2020. La rateizzazione è fino a 5 anni. Dunque, «nessun condono, ma solo operazioni di buon senso».

Ancora sul fronte del lavoro e dell’impresa, il governo ha varato un provvedimento contro la concorrenza sleale delle cosiddette aziende “apri e chiudi”, «cioè di quegli esercizi – ha ricordato il premier – che aprono, non versano nulla nelle casse dello Stato, spariscono e poi ricominciano daccapo». «La misura prevede che, quando si hanno avvisaglie, l’Agenzia delle Entrate convochi il titolare e ne cancelli la Partita Iva, che potrà essere riaperta solo con fideiussione sul pagamento delle tasse dovute. Noi crediamo infatti – ha ricordato Meloni – che gli imprenditori e i commercianti vadano difesi dalla concorrenza sleale e dall’abusivismo».

Dunque, misure in cui l’impronta politica del governo emerge chiaramente. Così come per quelle adottate sul fronte delle famiglie, delle pensioni, del reddito di cittadinanza, fisco. Quello per la famiglia è un vero e proprio pacchetto, che getta a sua volta le basi di un programma di legislatura. Nella manovra «1,5 miliardi sono stati destinati alle famiglie e alla natalità, un impegno – ha rivendicato il premier – che non credo abbia precedenti nei governi recenti». Nel pacchetto trovano spazio gli aumenti per l’assegno unico (50% in più per tutto il primo anno di vita del bambino; 50% in più per tre anni per le famiglie numerose con 3 figli o più) e la stabilizzazione della maggiorazione per i figli disabili, che «incredibilmente – ha sottolineato Meloni – era transitoria e non strutturale. Invece noi crediamo che sia una condizione fondamentale che i bambini disabili abbiano più degli altri».

E ancora tra le misure per le famiglie hanno trovato spazio l’Iva al 5% su tutti i prodotti per la prima infanzia e sugli assorbenti; la conferma dell’agevolazione sulla prima casa per le giovani coppie, tra le quali la copertura dello Stato copre fino all’80% mutui; un intervento sul congedo parentale facoltativo che «costituisce una piccola banca del tempo» per i genitori di bambini fino a 6 anni e che introduce un mese retribuito all’80% invece che al 30%. Nella manovra, inoltre, c’è lo «stanziamento di 500 milioni contro il caro carrello». Il governo ha deciso di non dare il via libera all’azzeramento dell’Iva su pane e latte «perché non potendo distinguere il reddito, la misura si sarebbe spalmata anche su chi non aveva bisogno: abbiamo in mente di selezionare con decreto alcuni alimenti e utilizzare questi 500 milioni per abbassare il prezzo di quei beni per gli incapienti attraverso la rete dei Comuni» e coinvolgendo anche produttori e distributori.

Il deterioramento odierno dei fondamentali di finanza pubblica è dunque almeno mirato a una maggiore crescita? Non molto. Per il 2023 l’esecutivo vede un’espansione dell’economia solo dello 0,3 per cento superiore a quella che vi sarebbe senza i non piccoli scostamenti che abbiamo visto.

Il ministero dell’Economia pensa che cresceremo dello 0,6 per cento invece che dello 0,3 per cento. Non solo, questo 0,3 per cento tendenziale (ovvero quello che si verificherebbe senza interventi pubblici) è una revisione al ribasso delle precedenti stime del governo Draghi. Rispetto a queste ultime previsioni, secondo cui il Pil sarebbe aumentato del 0,6 per cento l’anno prossimo, il miglioramento impresso dai provvedimenti del Governo è zero.

In sostanza fare più deficit e più debito non ha alcun impatto sulla crescita.

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