Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da James Hansen il seguente articolo:
Quando l’Unione Europea comunica per “informare, non influenzare”, tende comprensibilmente ad accentuare ciò che è positivo nell’andamento del “progetto europeo” e a trascurare i momenti meno felici, come il voto del 1982 con cui la (minuscola) popolazione della Groenlandia—avendo ottenuto l’autonomia rispetto alla Danimarca—decise di uscire dall’Ue.
La cosa è ovviamente di scarsa importanza—visto che i groenlandesi sono meno di 60mila —anche se l’Ue, curiosamente, insiste ancora nel conteggiarli tra i propri “cittadini” nelle sue statistiche. Di maggiore impatto è la minoranza di paesi dell’Unione che preferisce restare fuori dall’euro. Dopo Brexit, sono 8 su 27: Svezia, Danimarca, Bulgaria, Croazia,
Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Romania.
Con la sola eccezione del Regno di Danimarca, che respinse il Trattato di Maastricht con un referendum nazionale nel 1992, tutti gli altri sarebbero obbligati a entrare nel sistema euro “prima o poi”, al raggiungimento di certi criteri economici e legali riguardanti la stabilità economica, l’inflazione, l’integrazione dei mercati e i bilanci di pagamento nazionali.
Ipoteticamente, l’andamento dei “criteri di convergenza” dovrebbe essere misurato ogni due anni, ma—
e non è un “ma” da poco—solo su richiesta del paese interessato. I singoli stati possono allora rimandare l’effettiva entrata nell’euro sine die: ed è esattamente ciò che hanno fatto finora, né ci sono indicazioni che intenderebbero entrarci prossimamente.
Le motivazioni dei paesi “riluttanti” sono perlopiù economiche. Riguardano la percepita necessità di mantenere l’indipendenza nello stabilire le politiche monetarie rispetto a temi come l’indebitamento nazionale e la gestione dell’inflazione, nonché la possibilità di svalutare la propria moneta all’occorrenza.
I dubbi sulla gestione centralizzata europea sono cresciuti dopo il crac del 2008. Gli inglesi—mai entrati nell’euro—reagirono quasi istantaneamente, nel 2009, con un programma di quantitative easing, iniettando 375 miliardi di sterline “nuove” nell’economia, mentre la Banca Centrale Europea attese fino al 2015 prima di ricorrere agli stimoli economici. La “gara” economica di quegli anni è stata vinta nettamente dagli inglesi… Da allora, la politica della BCE di creare nuovi soldi “à go-go” in risposta allo sconvolgimento economico provocato dal Covid non ha fatto che aumentare i dubbi dei paesi Ue fuoridall’euro, afflitti come sono dalle stesse incertezze coltivate da buona parte dell’Establishment tedesco.
Qualche consolazione c’è però. Esistono alcuni paesi non-Ue che utilizzano la valuta europea. Non sono forse economie primarie, ma comprendono Kosovo, Montenegro, Andorra, San Marino, Monaco e la Città del Vaticano, come anche alcuni piccoli territori francesi “d’oltremare”: Saint Pierre e Miquelon (al largo della costa canadese), alcune isole nel Oceano Indiano e Saint-Barthélemy, nel Mare dei Caraibi.
Altri utilizzano l’euro senza aderire al sistema. La Croazia, per esempio, dalla creazione nel 1994 della propria valuta, la kuna, segue una politica di “pegging” che lega strettamente il valore della moneta domestica a quella europea—seppure non necessariamente in via permanente…