L’ordine del giorno del governo riguarda la cessione di Tim ad una cordata guidata da Kkr; l’amministrazione controllata straordinaria per Ilva che il governo ha fatto scattare prima del previsto per stoppare ulteriori manovre dilatorie e ulteriormente dannose per la fabbrica, il settore dell’acciaio e la casse pubbliche. In quell’ordine del giorno tenuto un po’ sottobanco perché scomodo ci sono soprattutto i richiami di Bruxelles sulla nostra legge di bilancio “non in linea con le raccomandazioni della Commissione”.
E c’è il pacchetto di privatizzazioni da 20 miliardi annunciato nella Nadef e confermato dalla premier Meloni nella conferenza stampa di inizio anno e di cui il ministro Giorgetti ha discusso proprio al Forum economico di Davos che si è chiuso con importanti investitori, da Jp Morgan a Bank of America, il segretario delle finanze di Hong Kong.
Quello che è sicuro è che l’Italia nel 2024 dovrà collocare sul mercato 350 miliardi di titoli di stato e che la Bce abbasserà fino ad azzerare il sostegno dato in questi anni al debito italiano.
Il governo vuole vendere fino al 4% di Eni per ridurre il debito, l’indiscrezione di Bloomberg
Manca un anno all’insediamento del prossimo governo europeo che uscirà dal voto del 9 giugno. Da qui ad allora l’Italia rischia di impoverirsi e pagare cara la sua indisciplina economica. E le sue casse magre. Con prospettive di crescita assai ridimensionate (da 1,5 della Nadef allo 0,6 della Banca d’Italia) e il debito praticamente stazionario. La missione di Giorgetti è l’esigenza di fare cassa. A cominciare da quelle privatizzazioni che nelle previsioni comunicate a Bruxelles ammontano a venti miliardi. Proprio a Davos, giovedì, l’agenzia Bloomberg ha fatto filtrare la notizia dell’intenzione del governo di cedere il 4 per cento dell’Eni, il gioiello di casa. Una quota minore, in pratica la quota del Mef (4,4%), mentre il pacchetto di maggioranza (26,2%) è e resta in mano alla controllata Cassa Depositi e Prestiti. Previsioni d’incasso: due miliardi. Tra gli altri gioielli in vendita ci sarebbero quote di Ferrovie che controlla per intero la rete e al cento per cento controllata dallo Stato. Nel gruppo adesso ci sono anche Anas e le strade statali. Tre le ipotesi più accreditate anche quella di scorporare Trenitalia e metterne sul mercato una quota pari circa al trenta per cento. Nell’elenco ci sono Poste, la più grande società pubblica per numero di dipendenti (oltre 120 mila).
L’ipotesi è quella di vendere l’intera quota del Tesoro, più o meno un terzo, per un controvalore di circa quattro miliardi. Il momento dell’annuncio potrebbe coincidere con la fine di marzo quando il numero uno del gruppo Matteo Del Fante presenterà il nuovo piano industriale e i numeri del 2023. In cantiere anche la cessione del 14-15 per cento di Rai Way, la società oggi controllata al 65% attraverso la Rai e che si occupa della trasmissione del segnale radiotelevisivo digitale terrestre. Anche qui è difficile dire quanto possa portare in cassa questa operazione finché non se ne conosce il dettaglio. Il tema su cui economisti e analisti si stanno interrogando con una certa ansia è molto semplice: quale è il piano industriale del governo che decide di mettere in vendita pezzi importanti dello Stato. Se fosse solo l’esigenza di curare il debito, sarebbe una visione un po’ miope.