Le midterm, elezioni di metà mandato americane, hanno consegnato ai Democratici la maggioranza alla Camera, lasciando però ai Repubblicani di Donald Trump quella al Senato. I liberal sono riusciti nell’intento di conquistare i 23 seggi di cui avevano bisogno per scalzare i conservatori, almeno nella camera bassa.
Esponenti delle minoranze religiose, etniche, giovani, gay e donne. Tante donne. Alla Camera saranno almeno 99 le nuove deputate. Un numero che supera il record precedente di 84 . Al Congresso, inoltre, entrerà anche l’astro nascente dei democratici Alexandra Ocasio-Cortez, eletta nel Bronx con un’agenda marcatamente radicale e riformista.
Altra figura storica che emerge dalle elezioni di midterm del 2018 è sicuramente quella di Jared Polis, il primo governatore dichiaratamente omosessuale della storia americana. Imprenditore di successo, Polis ha fondato una delle principali aziende di biglietti di auguri (la bluemountain.com) che ha venduto alla cifra stratosferica di 780 milioni di dollari dopo solo tre anni di attività. Ma questa è solo una delle fortunate iniziative imprenditoriali di Polis che, con il suo patrimonio (stimato) di di 387 milioni di dollari è tra i dieci membri del Congresso più ricchi. Nelle elezioni di metà mandato del 2018 ha ottenuto la vittoria in Colorado imponendosi sul repubblicano Walker Stapleton.
Continua su: https://newsmondo.it/elezioni-midterm-2018-alexandria-ocasio-cortez-e-jared-polis/esteri/?utm_source=newsmondo&utm_medium=push&utm_campaign=OneSignal&refresh_ce
Le elezioni di metà mandato, infatti, sono tradizionalmente ostili ai presidenti in carica, ma Trump se l’è cavata piuttosto bene. Alle midterm, sottolinea il Tycoon newyorchese su Twitter “è successo solo 5 volte negli ultimi 105 anni che un Presidente in carica abbia vinto al Senato”. Trump su questo ha ragione, a riconferma del fatto che i Dem gli hanno sì strappato la Camera, ma la sua permanenza alla Casa Bianca resta abbastanza solida.
Il Presidente in carica si è mosso bene negli ultimi giorni di campagna elettorale, con un occhio ben aperto ai sondaggi che pronosticavano l’arrivo inesorabile dell’onda blu democratica.
Nel rush finale della campagna elettorale, infatti, Trump si è guardato bene dal porre l’accento sulle buone performance dell’economia, nei discorsi pubblici e nelle apparizioni. Il Tycoon sa perfettamente che certi dati sono spesso il risultato di congiunture di lungo termine, sovente frutto dell’azione di una o due amministrazioni precedenti.
The Donald, invece, ha puntato tutto sulla paura – agitando lo spettro della carovana di migranti in arrivo dal Centro-America – che notoriamente crea più consensi del PIL in crescita e dello storico calo nella disoccupazione. Risultato: i repubblicani hanno tenuto botta, nonostante le difficoltà in numerosi distretti come Florida, Denver e Virginia.
La verità, come sempre, sta nel mezzo. I Democratici hanno sicuramente vinto la sfida alla Camera, complice una campagna elettorale finanziata molto meglio – a suon di donazioni private dal ceto medio – rispetto a quella dei repubblicani. Ma Trump ha le chiavi della Casa Bianca ancora saldamente in tasca, forte della maggioranza al Senato.
La parola d’ordine di questa seconda parte del mandato sarà “compromesso”, come si addice alla logica dei checks and balances, pesi e contrappesi, su cui si regge la repubblica statunitense. Una Camera a maggioranza democratica potrebbe influire sulle beghe giudiziarie di Trump, aprendo anche la strada all’impeachment. Una mossa, però, che rischia di compattare i repubblicani, proprio mentre il fronte Dem deve ancora metabolizzare lo “spostamento” a sinistra a firma Ocasio-Cortes e Bernie Sanders.
Insomma, non solo il peso del Presidente, non solo il ruolo delle istutuzioni ma anche la dimensione partitica giocherà un ruolo importante da qui ai prossimi due anni.
Per noi, che guardiamo ai risultati delle midterms dall’altra sponda dell’oceano, cambia veramente poco. Negli Usa – come spiega Dario Fabbri su Limes – non è il potere politico di turno quanto piuttosto il complesso degli apparati a “informare” la politica estera statunitense. Agenzie, Pentagono, comandi militari di stanza in tutto il globo e altri attori del cosiddetto deep state sono i veri artefici della postura geopolitica americana nel mondo. Una postura per definizione imperiale, che nessun presidente e nessuna composizione politica momentanea del Congresso potrà cambiare in maniera significativa.