La Scapigliatura milanese ebbe un rapporto profondo, direi quasi costitutivo, con la temperie politica della Milano del secondo Ottocento, anche se questo dato – da qui una delle ragioni del libro – è stato spesso frainteso dagli studi sul gruppo scapigliato, quando non addirittura misconosciuto. In realtà, il concetto di Scapigliatura fu sin dall’inizio anche una categoria politica, come testimonia il romanzo di Cletto Arrighi La Scapigliatura e il 6 febbraio (1862) che funse da manifesto inaugurale del gruppo, e dove il riferimento nel titolo al 6 febbraio rinviava ovviamente alla fallita rivolta mazziniana che ebbe luogo a Milano il 6 febbraio 1853. Insomma, nel suo romanzo Arrighi – e in particolare nella Presentazione già pubblicata nel dicembre 1857, e modellata su alcuni passaggi delle Scènes de la vie de bohème di Murger – voleva certo designare una nuova classe sociale, composta da giovani borghesi, “fra i venti e i trentacinque anni […]; più avanzati del loro secolo; indipendenti come l’aquila delle Alpi […]; inquieti, travagliati, turbolenti”, alla maniera appunto della bohème francese; ma intendeva anche dare alla singolarità di questo gruppo un accento politico forte, il cui nucleo non poteva che risiedere nella Milano di quegli anni nella lotta risorgimentale e segnatamente austriaca. “Chi nel quarantotto aveva vent’anni, fu un gran codardo o un gran filosofo se nei dieci anni successivi non pensò proprio ad altro che a mangiare, a bere e a far l’amore”, dichiara polemicamente Arrighi nel romanzo.
Ma non solo: oltre al suo doppio romanzesco, una Scapigliatura politica o risorgimentale fu attiva in quegli stessi anni, sotto la guida sempre di Arrighi, presso le redazioni di alcuni fogli umoristici milanesi come “L’Uomo di Pietra” e “Il Pungolo”, desiderosi di “fare colla penna un po’ di guerra all’Austria, in attesa di poterla far con qualcosa di più micidiale, quando fosse venuto il buon tratto”. A questo modello di militanza giornalistica, come ho cercato di ricostruire nel secondo capitolo, poterono poi rifarsi i ‘nuovi’ scapigliati del “Gazzettino Rosa” dalla fine degli anni Sessanta, in un contesto politico-sociale profondamente mutato ma altrettanto asfittico per quanto riguarda l’esercizio della libertà d’espressione.
Che ruolo svolse in particolare, per la costruzione identitaria del fenomeno scapigliato, la cosiddetta ‘Scapigliatura democratica’?
La Scapigliatura democratica svolse un ruolo fondamentale nel consegnarci quel gruppo di autori che oggi vanno sotto il nome di Scapigliatura. Va precisato anzitutto l’espressione “Scapigliatura democratica”, già interna al gruppo anche se episodica – Felice Cameroni se ne servì solo una volta, in un articolo sul “Gazzettino Rosa” il 6 maggio 1871 – fu recuperata negli studi sul gruppo alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso per definire quello sviluppo del fenomeno scapigliato che si distinse, a cavallo degli anni Settanta dell’Ottocento e attorno alla redazione del *Gazzettino Rosa”, per un maggiore impegno politico e sociale. Proprio “Il Gazzettino” ebbe un ruolo fondamentale nel costruire l’identità politica del gruppo: fondato da Achille Bizzoni e Felice Cavallotti, due garibaldini e democratici di ferro, questo temuto foglio rivoluzionò il modo di fare giornalismo a Milano per l’irriverenza dei suoi toni, l’estrema libertà delle sue prese di posizione (verso governo, istituzioni, valori borghesi, pagandone il prezzo a suon di sequestri e passaggi in carcere) e la scrittura moderna e ammiccante verso lettori e lettrici. Un giornale, insomma, che più scapigliato non si poteva; tanto che, complice ancora una volta la mediazione di Arrighi, la redazione si appropriò dell’epiteto di ‘scapigliati’ già nel 1868 per definire la propria battaglia politica e culturale. Dall’opposizione allo straniero alla ribellione contro l’ordine ‘felicemente’ costituito del compromesso monarchico, i giornalisti del “Gazzettino” riattivarono – e aggiornarono – così la matrice politica dell’idea di Scapigliatura.
L’epopea vissuta dal giornale tra 1867 e 1873, fatta di sequestri, incarcerazioni, latitanze e mille attenzioni da parte della polizia, sarà determinante nel definire l’identità della movimento: dallo scandalo della Regìa dei Tabacchi, sorta di Tangentopoli dell’epoca che i suoi redattori denunciarono con veemenza; all’identificazione tra scapigliato e comunardo allo scoppio della Commune parigina nel 1871, che il giornale seguì con grande partecipazione e immedesimazione; fino al passaggio di testimone agli ultimi giornali della Scapigliatura, la “Plebe” e la “Farfalla”, il giornale accompagnò tutti i momenti più importanti dell’avventura del gruppo. Ma soprattutto, contribuì a creare, grazie alla penna di Felice Cameroni, fine francesista e critico prolificissimo, un mito della Scapigliatura italiana impregnato dell’idea di letteratura come azione – dalla penna al fucile, insomma –; idea che recuperava e importava in Italia la lezione di Jules Vallès e dei “refrattari” (gli spostati e gli emarginati della società) svelati al pubblico francese nel suo libro omonimo, e che Cameroni corredò anche di una concreta veste letteraria, attraverso la proposta di autori consoni a questo ideale di scrittura di lotta (Tarchetti, Bizzoni, Tronconi, Carducci, Valera, e molti altri).
Quali furono le principali battaglie portate avanti dal gruppo?
Attraverso le armi del giornalismo e soprattutto del romanzo, genere allora relativamente nuovo in Italia e ancora in corso di definizione, gli scapigliati democratici attaccarono la società nelle sue zone d’ombra, portando avanti lungo un ventennio (dal 1860 al 1880 circa) numerose battaglie politico-sociali: dall’emergenza della questione sociale e lo svelamento dei bassifondi urbani, negli stessi anni in cui la pubblicistica borghese celebrava il mito produttivo di Milano come ‘capitale morale’, all’impegno antimilitarista, sollecitato dal romanzo di Tarchetti Una nobile follia; dalla denuncia della corruzione del mondo parlamentare e finanziario, ovvero di quella ‘casta’ – già allora chiamata così – colpevole di aver devastato l’Italia con le sue politiche sciagurate (vedi la famigerata tassa sul macinato introdotta nel 1868), fino al tema della morale, nel quadro del dibattito di quegli anni su istituto matrimoniale, divorzio e ruolo della donna nella società. A questi temi, che nel libro ho provato a seguire incrociando pubblicistica periodica e romanzo, gli scapigliati si dedicarono nell’ottimistica convinzione di cambiare le cose attraverso le parole. Un’idea di letteratura e scrittura, dunque, come trasformazione della realtà, dove a dominare sono i toni del pamphlet e l’arma del realismo, categoria spesso citata e dibattuta nella pubblicistica di questa fase. Un realismo o naturalismo, però, da intendere non tanto come metodo di osservazione della realtà, sull’esempio, pure fondamentale, delle prove romanzesche che provenivano d’oltralpe (basti pensare a Zola, presentato ai lettori italiani da Cameroni a metà degli anni Settanta), bensì come promessa in fondo etica al lettore: quella di dire la verità sempre, testimoniandola a prezzo della propria incolumità fisica e smascherando la menzogna della società.
Cosa rivela l’analisi incrociata delle prove narrative degli autori che la animarono e dei suoi giornali più in vista?
L’analisi che ho potuto svolgere, e che si è concentrata soprattutto sui giornali “La Cronaca Grigia”, “Il Gazzettino Rosa”, “La Plebe” e “La Farfalla”, e su alcuni autori del gruppo politico della Scapigliatura – Tarchetti, Bizzoni, Tronconi, Valera – ha rivelato, come caratteristica principale del corpus, quella di una forte ibridazione tra giornale e romanzo. Quasi tutte le opere narrative che ho esaminato, infatti, furono dapprima pubblicate – anche solo parzialmente – su giornale, con le conseguenze stilistiche che possiamo immaginare. Da un lato è il giornale a introiettare alcuni stilemi del romanzo, spesso ospitato del resto nello spazio dell’appendice per esigenze commerciali e di fidelizzazione del lettore; dall’altro, è il romanzo a servirsi dei nuovi strumenti messi a punto dal giornalismo, come quello del reportage mutuato dalla cronaca nera che allora si sviluppa anche in Italia. Questa mescolanza produce prodotti narrativi spesso ambigui, a metà strada tra reportage e feuilleton, e nei quali non di rado la voce del narratore interviene, molto giornalisticamente e in maniera assai poco discreta – siamo lontani dalle digressioni storiche di Manzoni o ancora di Rovani –, per denunciare, provocare, a volte persino insultare il lettore, il quale viene chiamato prima di tutto a una reazione. Siamo di fronte, cioè, a un’operazione ad ampio spettro che si serve di tutti i canali di comunicazione a propria disposizione per un obiettivo finale che prima che formale è anzitutto pragmatico: scrivere per trasformare la realtà.
Attualmente docente di italiano e francese nelle scuole secondarie in Svizzera, Francesco Bonelli ha conseguito nel 2019 un dottorato di ricerca in Studi italiani presso l’Université Grenoble Alpes e l’Università Cattolica di Milano. È membro associato del laboratorio LUHCIE (Université Grenoble Alpes) e fa parte del comitato di redazione della collana RAL (Retorica Argomentazione Linguistica) per I Libri di Emil. Oltre al movimento della Scapigliatura, i suoi interessi di ricerca riguardano i rapporti tra letteratura e giornalismo a cavallo tra Otto e Novecento, e la retorica del discorso pubblico contemporaneo.