La Camera è stata convocata per le 10, presieduta da Ettore Rosato, in quanto vicepresidente uscente più anziano. Il Senato è stato convocato, invece, per le 10.30 e la presidenza sarà affidata a Liliana Segre, decana dei senatori. Più anziano di lei, infatti, c’è solo Giorgio Napolitano, che però non ha presenziato per motivi di salute. Segre è, allo stato attuale, anche l’unica senatrice a vita a essersi registrata.
L’elezione del presidente del Senato, che può essere solo un senatore, avviene a scrutinio segreto. Oltre a regolare i lavori dell’Aula, in quanto seconda carica dello Stato, è chiamato anche a svolgere le funzioni di sostituto del presidente della Repubblica qualora questi fosse impossibilitato ad assolverle. Per arrivare alla sua elezione nella prima e nella seconda votazione è necessaria la maggioranza assoluta dei senatori (104 voti, considerando i senatori a vita); nella terza, che deve avvenire il giorno successivo alle prime due, basta la maggioranza assoluta dei presenti e le schede bianche si contano come voti validi; nel caso neanche con la terza votazione si riuscisse a eleggere il presidente del Senato, si procede alla quarta e ultima votazione con un ballottaggio tra i due senatori più votati al terzo scrutinio. Nella bizzarra eventualità che dovessero risultare pari, viene eletto il più anziano.
Anche alla Camera il presidente viene eletto con scrutinio segreto e può essere scelto solo tra i deputati. Anche in questo caso ha il compito di assicurare il regolare svolgimento dei lavoro, svolgendo una funzione di garanzia sia per la maggioranza sia per l’opposizione. Il meccanismo dell’elezione, però, differisce per alcuni passaggi da quello del presidente del Senato. A Montecitorio, infatti, per l’elezione alla prima votazione serve la maggioranza dei due terzi dei membri della Camera (267 voti), che si abbassa ai due terzi dei votanti per secondo e terzo scrutinio. Anche qui le schede bianche valgono come voti validi. Nel caso non si arrivasse all’elezione neanche al terzo scrutinio, dalla quarta votazione si procede contando la maggioranza assoluta dei voti e si va avanti a oltranza finché un deputato non la ottiene. L’elezione del presidente della Camera è spostata in prima chiama è prevista domani.
Giorgia Meloni si attendeva un voto compatto della maggioranza al Senato sul nome di Ignazio La Russa, cosa avvenuta.
Verosimilmente la presidenza della Camera sarà destinata probabilmente alla Lega.
Poi nel corso della giornata di ieri ha preso corpo nella Lega anche la candidatura di Nicola Molteni per Montecitorio. Per gli alleati prima di accettare qualsiasi soluzione serve un patto sulle caselle dei ministeri. Non a caso, Matteo Salvini a stretto giro ha convocato il Federale della Lega.
Ignazio La Russa è il nuovo presidente del Senato. Sistemata la prima casella del totonomi impazzato fin dal giorno successivo alla vittoria del centrodestra. Giorgia Meloni può ritenersi soddisfatta di essersi assicurata per un suo fedelissimo la seconda carica dello Stato e ora può continuare a condurre con piglio più sicuro le trattive per i ministeri.
Figlio del senatore del Movimento Sociale Italiano Antonino La Russa, Ignazio La Russa nasce a Paternò, in provicnia Catania, nel 1947. Sposato, con tre figli, studia prima in un collegio della Svizzera tedesca per poi laurearsi in giurisprudenza all’Università di Pavia. Alla passione politica che persegue fin da giovanissimo, tanto che nel 1971 diviene responsabile del Fronte della gioventù, il ramo giovanile nel MSI, associa la carriera da avvocato, che lo vede protagonista nella coda giudiziaria degli anni di piombo. Tra il 1987 e il 1990 fu l’avvocato della famiglia di Sergio Ramelli, un giovane militante del Fronte della Gioventù ucciso da un commando di Avanguardia Operaia nel 1975 e difesnore delle parti civili nel processo per l’omicidio di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, due milintani missini di Padova, il primo assassinio rivendicato dalle Brigate Rosse nel 1974.
La carriera politica vera e propria inizia con le elezioni regionali lombarde del 1985 in cui viene eletto consigliere. Riconfermato nel 1990, nel 1992 sbarca in Parlamento, alla Camera, tra le fila del MSI. Due anni più tardi segue convintamente Gianfranco Fini nella scelta di svincolare definitivamente il partito dai richiami post fascisti e fondare Alleanza Nazionale, di cui La Russa presiede l’assemblea congressuale che ne sancisce la nascita nel 1995. Tra il 2001 e il 2003 sarà anche capogruppo del partito alla Camera.
L’ex leader di An si è fatto di nuovo vedere per difendere Giorgia Meloni e il suo cammino verso palazzo Chigi. Senza però suscitare gli entusiasmi dei suoi ex compagni di partito
Nei giorni scorsi, abbastanza inaspettatamente, Gianfranco Fini ha rimesso fuori la testa. Erano anni che non si riaffacciava nella scena pubblica. Lo ha fatto in sordina, attraverso una chiacchierata informale alla sede della stampa estera con i corrispondenti accreditati in Italia. Ha parlato ovviamente del prossimo governo Meloni, e più in generale della destra che arriva al governo dell’Italia. Un fatto storico.
Fini ha difeso la Meloni dagli attacchi preconcetti di molti, ha spiegato che non c’è nessun rischio di ritorno al fascismo, e che insomma dopo gli ex comunisti anche la destra aveva tutto il diritto, e i titoli, di entrare direttamente nella stanza dei bottoni. Parole al miele per Giorgia Meloni, che però almeno pubblicamente non ha ringraziato il predecessore, né lei né alcuno della sua corte. Strano, no? Per chi conosce il mondo della destra non troppo. Molte sono le ferite ancora aperte in quel campo, molti e molto accesi sono stati gli scontri in un mondo abituato da sempre a confronti aspri, di quelli in cui non si fanno prigionieri. “Un cazzotto rafforza un’idea”, diceva Francesco Storace, e la frase rendeva bene l’immagine di quanto da quelle parti il dibattito delle idee tendesse spesso a lasciare strascichi.
C’è infatti una parte dell’universo della destra che con la svolta di Fiuggi non ha ancora fatto i conti, non l’ha proprio digerita, e che considera lo strappo pensato e voluto da Fini come una sorta di tradimento ai valori tradizionali, quelli a cui restare ancorati, perché come si diceva nei Campi Hobbit dei giovani missini negli anni Settanta, “le radici profonde non gelano”. Fini ha pensato una destra finalmente emancipata non solo dall’orpelleria post-fascista, quella della paccottiglia predappiese, ma anche ancorata agli ideali della destra liberale americana, alla tradizione del conservatorismo anglosassone, propugnatrice insieme di libertà economiche e aperta sui diritti e valori civili, non certo sovranista e piuttosto aperta all’Unione europea, comunque liberale nella concezione democratica e dinamica della società.
Il neo-presidente del Senato continua a seguire la parabola politica della destra italiana anche nella scelta di far confluire An nel Popolo delle Libertà di Silvio Berlusconi. Durante il quarto governo del Cavaliere tocca quello che fino a ieri era stato l’apice della sua carriera istituzionale. Tra il 2008 e il 2011 è Ministro della Difesa: in queste vesti convince Berlusconi a partecipare all’intervento internazionale in Libia contro Gheddafi nella primavera del 2011, fonda la società Difesa Servizi S.p.A col fine di valorizzare i beni del ministero e ottiene il riconoscimento del 17 marzo come festa della proclamazione del Regno d’Italia.
Dopo la caduta del governo Berlusconi in seguito alla crisi dello spread nel novembre 2011 lascia il Pdl e l’anno successivo, insieme a Giorgia Meloni e Guido Crosetto, fonda Fratelli d’Italia, con cui viene rieletto deputato nel 2013. Alle scorse elezioni, dopo 26 anni passati a Montecitorio viene eletto senatore, divenendo anche vicepresidente di Palazzo Madama, di cui da oggi, riconfermato per la XIX legislatura, occupa lo scranno più alto.
Nel corso della sua carriera non sono mancate polemiche, soprattutto nei momenti in cui La Russa ha difeso alcune idee storiche del centrodestra, come la contrarietà alle adozioni omosessuali e la proposta, arrivata durante la pandemia, di rendere il 25 aprile la festa «del ricordo delle vittime di tutte le guerre, comprese quelle del Coronavirus». Guai sono arrivati anche dalla famiglia quando il fratello Romano, consigliere regionale lombardo, è stato immortalato in un video in cui si produceva nel saluto fascista al funerale del Fratello Stabilini. Gesto da cui Ignazio si è dissociato definendolo un «grave errore».
Durante l’ultima campagna elettorale è stato uno dei più stretti collaboratori di Giorgia Meloni nelle trattive con gli alleati per la formazione del governo e la sua elezione come presidente del Senato è sempre stato un punto fermo della leader di FdI che lo vede come una figura di garanzia.