Il Coronavirus “taglia” le pensioni: quanto peserà il crollo del Pil sugli assegni

La recessione economica scatenata dalla crisi coronavirus potrà avere un impatto negativo anche sugli assegni previdenziali. Chi andrà in pensione nei prossimi anni, in particolare a partire dal 2022, vedrà infatti una rivalutazione del montante contributivo, per quanto riguarda i versamenti avvenuti dal primo gennaio 1996. Calerà, di conseguenza, l’importo dell’assegno. Il motivo? Il meccanismo vigente prevede che i contributi vengano ricalcolati sulla base dell’andamento economico. 

Quanto perderanno i pensionati italiani? Per ora, le stime parlano di un ribasso degli assegni interamente contributivi compreso tra il 2,5 e il 3%. L’impatto è al momento piuttosto modesto, e potrebbe corrispondere a una trentina di euro in meno al mese per una pensione media di 1.126 euro. Non è però detto che questo accada: il Governo può infatti decidere di intervenire per “bloccare” l’applicazione del tasso di variazione del montante. 

Per spiegare le ragioni di quanto sta per accadere alle pensioni bisogna tornare indietro al 1995, quando venne varata la Riforma Dini. Quel provvedimento aveva come obiettivo la conservazione dell’equilibrio finanziario del sistema.

In particolare, si decise che coloro che nel 1995 avevano almeno 18 anni di contribuzione sarebbero ricaduti nel sistema retributivo: sono stati quindi inseriti nel calcolo contributivo solo a partire dalla legge Fornero del 2012.

Chi, invece, al passaggio tra il 1995 e il 1996, aveva meno di 18 anni di contribuzione, è stato collocato nel sistema misto basato su un calcolo contributivo da quell’anno in poi. Quest’ultimo sistema prevede, appunto, un ricalcolo del montante contributivo in base al coefficiente fornito ogni anno dall’Inps sull’andamento del Pil nei 5 anni precedenti.

Nel 2015, quel coefficiente è stato per la prima volta negativo, cosa che avrebbe prodotto una diminuzione per quell’anno, seppur lieve, dell’assegno pensionistico se il Governo Renzi non fosse intervenuto a bloccare la variazione.

Come spiega il Corriere, la norma del 2015 prevede anche che, in caso di coefficienti negativi in futuro, lo scarto venga recuperato negli anni successivi sottraendolo dai tassi positivi, senza mai andare sotto lo zero: in questo modo, il recupero, se necessario, può essere spalmato anche su più anni. Questo implica che, se anche come si prevede già dal 2021 il Pil dovesse tornare in crescita, i coefficienti saranno comunque più bassi, determinando una diminuzione degli assegni. Perché dal 2022? Perché è il primo anno a cui si applicherà il contingente che tiene conto del Pil del 2020. 

Secondo il calcolo del Messaggero, un contribuente nato nel 1956, che ha cominciato a lavorare nel 1980 e va in pensione nel 2023 a 67 anni, perderà circa il 2,7% sulla parte contributiva della pensione e l’1,7% sull’importo complessivo della pensione lorda, che in questo caso è col sistema misto (fino al 1996 retributivo).

I sindacati chiedono al Governo di intervenire bloccando il ribasso. Come ha affermato Domenico Proietti, segretario confederale Uil, al Messaggero, se da un lato la rivalutazione del montante contributivo non può essere inferiore all’1% per la norma del 2015, “è altresì vero che eventuali differenze saranno recuperate negli anni successivi con effetti negativi sul futuro previdenziale dei lavoratori”.

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