Il diabete uccide più di Aids, malaria e tubercolosi insieme

Ogni anno il diabete causa 5 milioni di morti contro i 3,6 di Aids, malaria e tubercolosi insieme. È quanto risulta dai dati della settima edizione dell’International diabetes federation (Idf ) Diabetes Atlas, reso pubblico ieri, 12 novembre, secondo i quali un adulto su 11 nel mondo ha il diabete, per un totale di 415 milioni di malati. Di questi si ritiene che quasi la metà (46,5%) non abbia ancora ricevuto una diagnosi e, pertanto, non sia trattata nel modo adeguato. I tre quarti delle persone con diabete vivono in Paesi cosiddetti in via di sviluppo e il 12% della spesa sanitaria mondiale (673 miliardi di dollari, cioè circa 626 miliardi di euro) è assorbito dalla cura di questa malattia. Le prospettive per i prossimi 25 anni sono preoccupanti. L’Idf prevede infatti che entro il 2040 il diabete colpirà un adulto su dieci, cioè 642 milioni di persone in tutto il mondo. Come negli anni precedenti questi dati dell’Idf riflettono un drammatico, costante aumento del numero di persone con diabete, commenta Costas Piliounis, vicepresidente Novo Nordisk Italia e Grecia. La Giornata mondiale del diabete, aggiunge, è quindi un’importante pietra miliare che ci ricorda la necessità di collaborare per la prevenzione, la diagnosi e la gestione del diabete. La Giornata si celebra il 14 novembre di ogni anno, nel giorno del compleanno di Frederick Banting che, insieme a Charles Best, fu il primo a concepire l’idea che ha portato alla scoperta di insulina nel 1921. Prima della scoperta dell’insulina la sopravvivenza dopo la diagnosi di diabete di tipo 1 era estremamente breve e il 50% dei pazienti moriva entro i primi 20 mesi dalla diagnosi e meno del 10 % sopravviveva a 5 anni. L’introduzione della terapia insulinica nel 1922 ha notevolmente migliorato la sopravvivenza e la mortalità da chetoacidosi diabetica è diminuita sostanzialmente, tanto che a metà dello scorso secolo, seppur l’attesa di vita per le persone con diabete di tipo 1 fosse ridotta di 20 anni, il 50% dei soggetti raggiungeva l’età di 55 anni. Oggi, mezzo secolo più tardi, la terapia insulinica intensiva è diventata lo standard di cura e i progressi nelle modalità di somministrazione, nelle tipologie d’insulina e nel monitoraggio glicemico hanno notevolmente migliorato la gestione della malattia. Per cui la domanda che ci si pone è se l’aspettativa di vita del paziente con diabete di tipo 1 è uguale a quella delle persone senza diabete e quali sono gli eventuali fattori di rischio coinvolti nel condizionare l’attesa di vita. Su queste domande sono stati pubblicati alcuni studi molto importanti che meritano di essere riportati nei loro messaggi sostanziali. Si ha minor mortalità se si tratta il diabete di tipo 1 intensivamente da subito. È stato possibile dimostrare questo valutando la coorte di pazienti studiata nel Diabetes Control and Complications Trial (DCCT) dopo un lungo periodo di follow-up.
I partecipanti al DCCT erano 1.441 volontari sani con diabete mellito di tipo 1 che, al basale, avevano 13-39 anni di età con 1-15 anni di durata di malattia. Durante la sperimentazione clinica del DCCT, i partecipanti erano stati assegnati in modo randomizzato a ricevere terapia intensiva (n = 711), volta a ottenere una glicemia il più vicino a possibile ai limiti non diabetici e nel modo più sicuro, o terapia convenzionale (n = 730) con l’obiettivo di evitare ipoglicemie sintomatiche e iperglicemia.La pubblicazione originale del DCCT è la base dell’attuale raccomandazione alla terapia insulinica intensiva multiniettiva avendo dimostrato allora che determinava una riduzione del 50-70% delle complicanze microvascolari. Dopo la conclusione dello studio DCCT (1983-1993), i partecipanti sono stati seguiti con uno studio osservazionale multicentrico (27 centri degli Stati Uniti e Canada) chiamato Epidemiology of Diabetes Control and Complications [EDIC].  È stato quindi possibile valutare il rischio di mortalità dopo una media di 27 anni. Il rischio di mortalità generale nel gruppo intensivo è risultato inferiore a quella nel gruppo convenzionale, anche se la riduzione del rischio assoluto era minima (di circa 1/1000 pazienti-anno). Questi risultati forniscono rassicurazione che la terapia insulinica intensiva attuata nei primi 1-15 anni d’insorgenza della malattia è associata a una riduzione della mortalità, confermando nel diabete mellito di tipo 1 quanto osservato nel diabete di tipo 2 sull’opportunità di terapia intensiva precoce. Si ha minor mortalità se si riduce l’emoglobina glicosilata. Questo studio osservazionale è stato effettuato in una popolazione con diabete di tipo 1, seguita attraverso il registro nazionale in Svezia. La mortalità dei soggetti con diabete di tipo 1 è, nella media, risultata doppia rispetto alla popolazione non-diabetica, e le cause cardiovascolari di morte sono risultate all’incirca triplicate rispetto ai controlli. Questo rischio è risultato però direttamente proporzionale al controllo metabolico misurato come livelli di emoglobina glicosilata L’aspettativa di vita attuale per gli adulti con diabete di tipo 1 non è ancora uguale a quella delle persone senza diabete. In questo studio si riporta l’attesa di vita attuale per gli adulti con diabete di tipo 1 in un campione di popolazione utilizzando registri nazionali scozzesi di adulti con e senza diabete. I risultati riportano che all’età di 20 anni, le donne e gli uomini con diabete di tipo 1 possono aspettarsi di vivere 12,9 anni e 11,1 anni, rispettivamente, in meno di adulti di età corrispondente ma senza diabete di tipo 1. Complessivamente, il 41% di queste morti premature erano secondarie a malattie cardiocircolatorie, il 16 % era a causa di cancro, e il 9 % era da complicanze acute e altre cause legate al diabete .Ciò nonostante la terapia non è ancora in grado di sostituire completamente la funzione e molto lavoro deve ancora essere fatto. Questo è oltretutto vero se si considera che meno di un diabetico di tipo 1 ogni 4 è a target per il controllo glicemico. Abbiamo quindi una terapia efficace, ma non ancora sufficiente e accanto all’invito di usarla nel miglior modo possibile dobbiamo mantenere lo sforzo per trovare strade definitive nella cura.

Clementina Viscardi

 

 

 

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