Uno degli aspetti più frequenti nella condizione di disagio intrafamiliare che può sfociare nella separazione (anche se allo stesso tempo può costituirne un freno inibitore) è quello relativo al così detto mobbing familiare o coniugale.Il Mobbing coniugale consiste in attacchi e accuse, svolte in modalità sistematiche nei confronti del partner, cercando di colpirlo nelle sue parti più deboli e di umiliarlo. Per riconoscerlo dovranno essere presenti tentativi di sminuire il suo ruolo nell’ambito familiare, emarginazioni, continue provocazioni e prevaricazioni anche senza motivo, pressioni affinchè il coniuge lasci il letto coniugale, o il tetto coniugale, o la gestione economica nelle mani del mobber.Ma sussiste mobbing anche in presenza di imposizioni, esclusioni, rifiuto al dialogo e disinteresse continuo nei confronti del partner in tutte le sfere della normale vita quotidiana, compresa la sfera della sessualità. Quello che caratterizza infatti il mobbing familiare (o mobbing coniugale) é un vero e proprio disegno posto in essere al fine di operare una vera e propria distruzione della personalità del partner che (quasi in preda alla c.d.Sindrome di Stoccolma) cade in uno stato di depressione indotta dal mobber (dai suoi comportamenti) nella quale la perdita completa dell’autostima e l’annullamento della personalità sono, spesso, lo strumento per indurre l’allontanamento della vittima. Raramente tali condotte assumono la configurazione di maltrattamenti fisici ma ciò non è da escludere considerata la scarsa tendenza a portare all’attenzione dell’autorità tali episodi: la vittima cade in uno stato paragonabile a quello delle vittime di violenze, spesso restie per paura o vergogna (che in questo caso sono direttamente indotte dalle azioni del mobber) a denunciare quanto subito.Il Mobbing familiare è molto frequente anche dopo un divorzio o un allontanamento del coniuge, e rispetto al primo, si differenzia notevolmente, poichè oltre alle prevaricazioni sulla singola persona, vengono coinvolti anche i figli. Si potranno ritrovare facilmente delle modalità comportamentali quali prese di posizione per delegittimare il partner con il fine di sminuirlo agli occhi del figlio, così come veri e propri “sabotaggi” atti ad impedirne la frequentazione, spesso associando minacce. Lo scopo di queste pratiche è ottenere una sorta di rivendicazione interrompendo in via permanente il legame tra il figlio e la parte lesa, facendolo magari subdolamente ad arrivare alla decisione di optare per una separazione consensuale, pur di chiudere una volta per tutte le dinamiche estenuanti e fortemente conflittuali alle quali è esposto continuamente.Come per gli altri tipi di mobbing, anche quello coniugale, specie se perpetuato per lunghi periodi, può portare a danni nella sfera psicofisica della persona, che possono sfociare in sindrome ansioso-depressiva o in un disturbo post-traumatico da stress, con i sintomi caratteristici di angoscia, senso di inefficacia, diminuzione dell’autostima, oltre ai disturbi fisici collegati.Tali violenze spesso vengono tenute nascoste, per paura di vendette, di minacciare la ormai compromessa unità familiare, di perdere il contatto con i figli, ecc.E’ essenziale tenere presente che questa violenza psicologica è punibile penalmente, anche denunziando i singoli reati che andranno poi a costituire la sanzione unitaria.Nell’ambito del diritto di famiglia il fenomeno mobbing assume caratteri complessi e disordinati per la mancanza assoluta di uno studio proficuo e descrittivo del fenomeno.Nella maggior parte dei casi rinvenuti in giurisprudenza di merito e di legittimità il mobbing viene descritto come un metodo subdolo messo in pratica per indurre la vittima a deprimersi facendole credere di essere una completa nullità o per cercare di farla allontanare dalla casa familiare.Tali “attentati psicologici”, non agiscono mai sul piano fisico come una violenza, una spinta, ma giorno dopo giorno, creano un clima fortemente refrattario attuando un processo di distruzione psicologica e affettiva.Il “mobbing coniugale” si manifesta con le seguenti manifestazioni, che hanno solo Alienazione-genitoriale-300x203carattere descrittivo e che non possono, in alcun modo, essere considerate come esaustive del fenomeno:Apprezzamenti offensivi in pubblico o in presenza di amici e conoscenti.
Atteggiamenti di disistima e disinteresse.
Provocazioni continue e sistematiche.
Tentativi di sminuire il ruolo in famiglia.
Coinvolgimento continuo di terzi nelle liti familiari.
Sottrazione di beni comuni.
Mancato supporto alla vittima nel rapporto con gli altri familiari.
Rifiuto al dialogo e disinteresse.
Si è cominciato a parlare di “mobbing familiare”, consentendone così l’asilo nel diritto di famiglia, da una sentenza di inizio del nuovo secolo, della Corte di Appello di Torino che ritenendolo, in motivazione, causa giustificante della addebitabilità della separazione, ha individuato determinati comportamenti lesivi della dignità del coniuge e quindi in contrasto con i doveri che derivano dal matrimonio.Nella predetta sentenza si può infatti leggere:“comportamenti dello S.( il marito) erano irriguardosi e di non riconoscimento della partner: lo S. additava ai parenti ed amici la moglie come persona rifiutata e non riconosciuta, sia come compagna che sul piano della gradevolezza estetica, esternando anche valutazioni negative sulle modeste condizioni economiche della sua famiglia d’origine, offendendola non solo in privato ma anche davanti agli amici, affermando pubblicamente che avrebbe voluto una donna diversa e assumendo nei suoi confronti atteggiamenti sprezzanti ed espulsivi, con i quali la invitava ripetutamente ed espressamente ad andarsene di casa” e che “il marito curò sempre e solo il rapporto di avere, trascurando quello dell’essere e con comportamenti ingiuriosi, protrattisi e pubblicamente esternati per tutta la durata del rapporto coniugale ferì la T. (moglie) nell’autostima, nell’identità personale e nel significato che lei aveva della propria vita”; si legge ancora nella sentenza che “al rifiuto, da parte del marito, di ogni cooperazione, accompagnato dalla esternazione reiterata di giudizi offensivi, ingiustamente denigratori e svalutanti nell’ambito del nucleo parentale ed amicale, nonché delle insistenti pressioni- fenomeno ormai internazionalmente noto come mobbing – con cui lo S. invitava reiteratamente la moglie ad andarsene”; ritenuto che tali condotte sono “violatori del principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi posto in generale dall’art. 3 Cost. che trova, nell’art. 29 Cost. la sua conferma e specificazione”; conclude nel senso che al marito “deve essere ascritta la responsabilità esclusiva della separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri (diversi da quelli di ordine patrimoniale) che derivano dal matrimonio, in particolare modo al dovere di correttezza e di fedeltà”. (Sentenza della Corte d’Appello di Torino, 21 febbraio 2000).Per la prima volta, nella giurisprudenza italiana, il fenomeno mobbing viene sdoganato dalla disciplina del diritto del lavoro per essere utilizzato nel delicatissimo ambito familiare quale elemento di addebitabilità della separazione.Ancora, più recentemente, il Tribunale di Napoli (27 settembre 2007) ha affermato come: “la continua denigrazione di un coniuge da parte dell’altro, integrando il c.d. “mobbing“, può comportare l’addebito della separazione al coniuge responsabile di tali abusi” dove, però, il responsabile degli abusi era la moglie!La pronuncia di addebitabilità della separazione, come noto, può essere richiesta solo quando il comportamento di uno dei coniugi contrasta con i doveri nascenti dal matrimonio, principalmente gli artt. 143 e 145 c.c. ( la mancanza di attività sessuale; l’offendere il decoro e l’onore del coniuge; il divieto di intrattenere rapporti extra familiari; la gelosia morbosa; l’ostacolare ogni attività di carattere religioso, culturale, politica, assistenziale ed altre ancora; il far mancare al coniuge più debole quanto necessario per il sostentamento o per una vita dignitosa), ma la Corte Suprema di Cassazione ha più volte precisato che “…ai fini dell’addebitabilità della separazione il giudice di merito deve accertare se la frattura del rapporto coniugale sia stata provocata dal comportamento oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi, e quindi se sussista un rapporto di causalità tra detto comportamento ed il verificarsi dell’intollerabilità dell’ulteriore convivenza, o se piuttosto la violazione dei doveri che l’art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi sia avvenuta quando era già maturata una situazione di crisi del vincolo coniugale, o per effetto di essa”.Il mobbing coniugale non può solo essere considerato quale “semplice” motivo di addebbitabilità della separazione.E’ necessario, infatti, considerare, attesa la notevole carica lesiva delle aggressioni del mobber (dalla perdita della stima personale a quella genitoriale e professionale, dall’aggressione morale in ambito familiare a quella in ambito sociale), il risvolto della responsabilità civile anche nei rapporti coniugali e, di conseguenza, della risarcibilità dei danni ex art. 2043 c.c. , subiti dalla vittima del mobbing familiare. Tale ultima norma, infatti, esprimendo il principio del risarcimento del danno da fatto illecito non pone alcuna forma di limitazione.L’illeicità della condotta idonea per il risarcimento del danno ex art. 2043 cc. è estranea dai parametri dei doveri coniugali predisposti dagli artt. 143 e 145 del codice civile, ma può senz’altro essere applicata nell’ambito del diritto di famiglia, in presenza di mobbing in quanto lo stesso deriva da comportamenti che ledono ingiustamente la personalità, la stima e le aspettative dell’altro coniuge.Vista la mancanza di un pensiero giurisprudenziale significativo sul tema, è utile soffermarsi su due sentenze di merito che hanno trattato il risarcimento del danno nei rapporti coniugali: Tribunale di Milano 10/02/1999 e Tribunale di Firenze 13/06/2000.Nella prima pronuncia, il tribunale milanese, nel corso del giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, si è trovato investito dalla domanda riconvenzionale di risarcimento del danno per la carenza di rapporti sessuali tra i coniugi a causa della impotenza del marito sin dai primi anni del matrimonio, che aveva procurato una danno biologico ed alla vita di relazione, della moglie, per mancata maternità.Il Tribunale di Milano, ha respinto tale domanda con la giustificazione della presenza di una consapevolezza in capo alla moglie sin dall’inizio del matrimonio di questa patologia di cui il marito era affetto e, conseguentemente, il mantenimento del consortium familiare per anni si è tradotto in una libera scelta della moglie stessa.Ma l’aspetto interessante della pronuncia del Tribunale di Milano è, soprattutto, l’apertura al riconoscimento della responsabilità aquiliana nell’ambito dei rapporti coniugali, anche se nel caso trattato, per la pregressa posizione di conoscenza e quindi di accettazione della malattia aveva escluso categoricamente l’elemento fondante della responsabilità, ovverosia la ingiustizia del danno. Il Tribunale ha sostenuto la compatibilità della regola generale di cui all’art. 2043 c.c. con quelle contenute nel diritto di famiglia e secondariamente ha fatto emergere la natura giuridica, e non soltanto morale, dei doveri nascenti dal matrimonio, giungendo ad affermare che essi rappresentano una vera e propria posizione giuridica di diritto soggettivo del coniuge ed in quanto tale meritevole di protezione.Il Tribunale di Firenze, invece, sempre nell’ambito della cessazione degli effetti civili del matrimonio, basata su ragioni di abbandono materiale e spirituale determinate da malattia psichica della moglie, accoglie la domanda di risarcimento del danno, basando la propria decisione su argomentazioni che hanno introdotto l’ingresso della tutela risarcitoria nella disciplina del diritto di famiglia.Secondo i Giudici di Firenze nel rapporto coniugale, i diritti inviolabili della persona, quali il diritto alla salute, all’immagine, alla personalità, all’onore ecc., restano sempre e comunque sacri ed intangibili. Ogni aggressione merita la risposta punitiva da parte dell’ordinamento anche e soprattutto con il risarcimento del danno patito dal soggetto “aggredito”.Significativa, in materia, oltre alle citate sentenze anche quella innanzi richiamata della Corte di Appello di Torino la quale, dunque, per la prima volta ha configurato la fattispecie indicando la rilevanza di un “comportamento, in pubblico, del coniuge offensivo ed ingiurioso nei confronti dell’altro coniuge, sia in violazione delle regole di riservatezza, e sia, soprattutto, in riferimento ai doveri di fedeltà, correttezza e rispetto derivanti dal matrimonio, condotta ancor più grave se accompagnata dalle insistenti pressioni (“mobbing“) con cui il coniuge stesso invita reiteratamente l’altro ad andarsene di casa”.Da ultimo, alla fine di questo scarso contributo giurisprudenziale, è intervenuta la sentenza n. 13983 del 19 giugno 2014 della Corte di Cassazione la quale segna un importante arresto in materia di mobbing familiare.Nel puntualizzare quali violazioni possono dar luogo all’addebito della separazione in una vicenda riguardante il ricorso di una moglie che chiedeva l’addebito adducendo al marito comportamenti assimilabili al mobbing familiare, finalizzati ad indurla a lasciare la casa coniugale, la prima sezione della Corte di Cassazione ha colto l’occasione per precisare la nozione di mobbing e il suo contesto di applicazione, escludendone a priori la riconduzione nel rapporto familiare, improntato, a differenza del passato, al “principio di uguaglianza morale e giuridica” dei coniugi.Secondo la Corte, infatti, la nozione di mobbing, intesa come condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico “che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente” è idonea a fotografare quelle situazioni “patologiche” che si ravvisano in presenza di un dislivello tra antagonisti, dove la vittima cioè è in posizione “di costante inferiorità rispetto ad un’altra – e – ciò spiega perché è con riferimento ai rapporti di lavoro che quella nozione è stata elaborata ed ha avuto applicazione“.“In materia familiare, invece, tale nozione può essere utile solo in campo sociologico, ma “in ambito giuridico assume un rilievo meramente descrittivo, in quanto non scalfisce il principio che l’addebito della separazione richiede pur sempre la rigorosa prova sia del compimento da parte del coniuge di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio – quelli tipici previsti dall’art. 143 c.c. e quelli posti a tutela della personalità individuale di ciascun coniuge in quanto singolo e membro della formazione sociale familiare ex artt. 2 e 29 Cost. – sia del nesso di causalità tra gli stessi atti e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza o del grave pregiudizio per i figli”.Secondo la suprema Corte, dunque, l’uguaglianza tra coniugi esclude il mobbing.Ma sempre in virtù del principio pacifico dell’uguaglianza tra i coniugi non può certamente ritenersi lecita la condotta tra gli stessi che sfocia in emarginazione, prevaricazione e umiliazione.
Avv. Amilcare Mancusi
TESTO DELLE SENTENZASuprema Corte di Cassazione I Sezione CivileSentenza 29 aprile – 19 giugno 2014, n. 13983Presidente Luccioli – Relatore LamorgeseSvolgimento del processoIl Tribunale di Torino, giudicando nella causa di separazione personale tra i coniugi G.M. e G.F., rigettò le reciproche domande di addebito, dispose l’affidamento condiviso del figlio minore con collocazione abitativa presso la madre, disciplinando le modalità dei rapporti con il padre, e pose a carico del F. un contributo al mantenimento del figlio e della moglie.La Corte di appello di Torino, con sentenza 1 giugno 2012, ha rigettato l’appello principale della M. e quello incidentale del F. Per quanto ancora interessa in questa sede, con riguardo alle domande di addebito, la corte ha condiviso la valutazione del tribunale che aveva ritenuti che i fatti da lei addebitati al marito (tra cui comportamenti assimilabili a mobbing familiare, atteggiamenti prepotenti e sprezzanti, villane espressioni indirizzate alla moglie, ecc.) non fossero causa ma effetto di un progressivo deterioramento del rapporto coniugale già in atto e che ciò giustificasse la decisione di non ammettere le istanze probatorie della M. in quanto attinenti a fatti temporalmente prossimi alla richiesta di separazione o generici e irrilevanti; analoga condivisione è stata espressa dalla corte con riguardo al rigetto della domanda di addebito proposta dal marito in relazione a fatti che non dimostravano la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e non rilevanti come causa della crisi matrimoniale. La corte ha inoltre ritenuto che non vi fossero ragioni di opportunità per modificare il regime di affidamento condiviso del figlio, che era in vigore dal 2006 con risultati positivi, anche tenuto conto del fatto che egli era prossimo alla maggiore età e che entrambi i genitori erano adeguati a tal fine.Avverso questa sentenza la M. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resiste il F. che propone ricorso incidentale affidato a due motivi. Entrambe le parti hanno presentato memorie.Motivi della decisionePreliminarmente va dichiarata inammissibile la corposa produzione documentale allegata alla memoria del F. ex art. 378 c.p.c., non avente ad oggetto né la nullità della sentenza impugnata né l’ammissibilità del controricorso (art. 372 c.p.c.).Venendo ad esaminare il ricorso principale, nel primo motivo la M. deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 151, comma 2, e 277 c.c., nonché insufficiente motivazione, per avere la corte del merito rigettato il motivo di appello con cui essa aveva dedotto l’erronea valutazione da parte del primo giudice delle condotte di mobbing poste in essere dal F. e consistite in provocazioni, offese e umiliazioni di vario genere e con diverse modalità al fine di indurla a lasciare la casa coniugale. Il tribunale aveva ritenuto che quelle condotte erano successive al sorgere della crisi coniugale, come dimostrato da un fax dell’avv. B. dell’8 gennaio 2006 da cui emergeva che le parti già allora erano assistite da difensori a causa di una crisi che sarebbe sfociata nel ricorso per separazione presentato il 1° dicembre 2006. Tale valutazione non sarebbe condivisibile perché inficiata da un errore materiale sulla data del fax, inviato ai difensori del F. un anno dopo (l’8 gennaio 2007), con la conseguenza che le condotte di mobbing precedevano i contatti tra i difensori di quasi un anno e, quindi, doveva ritenersi che erano state causa della crisi coniugale. Inoltre, si imputa alla corte del merito di avere, da un lato, svalutato la rilevanza di fatti accaduti sin dal 2002 e, dall’altro, attribuito improprio valore alle dichiarazioni rese dagli stessi coniugi all’udienza presidenziale.Il motivo è infondato.Una violazione dell’art. 115 c.p.c. è configurabile solo ove il giudice ometta di valutare le risultanze istruttorie indicate dalla parte come decisive o ponga a base della decisione circostanze non ritualmente acquisite al giudizio; inoltre, non sussiste violazione dell’art. 116 C.P.C. laddove, nell’esercizio del suo prudente apprezzamento delle risultanze istruttorie, il giudice indichi con motivazione logica ed esauriente (o lasci intendere implicitamente quali siano) le ragioni della ritenuta decisività di alcune risultanze istruttorie a preferenza di altre; né integra una violazione dell’art. 2697 c.c. (richiamato nel corpo del motivo) la erronea valutazione delle risultanze istruttorie che è censurabile soltanto per vizio della motivazione (v. Cass. n. 4330/2013, n. 12968/2012).La corte torinese, con motivazione congrua ed immune da vizi logici, ha ritenuto che i comportamenti di mobbing addebitati al marito allo scopo di indurla ad abbandonare la casa coniugale non potevano dirsi causa ima conseguenza di una crisi coniugale già in atto, in quanto riferibili ad un periodo (primi mesi del 2006) in cui le parti erano già avviate sulla strada della separazione (formalizzata dal F. nel dicembre dello stesso anno), e ciò contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente che ha erroneamente addebitato alla sentenza impugnata di avere ritenuto che la crisi coniugale fosse “perdurante da anni e anni anteriormente al 2006″. La corte ha anche condiviso la non ammissione di alcune istanze probatorie della M. in quanto “da un lato generiche quanto a collocazione temporale dei fatti addebitati e dall’altro irrilevanti”, statuizione questa non espressamente censurata in questa sede mediante un apposito mezzo che avrebbe dovuto essere supportato dall’indicazione dell’atto con cui quelle istanze erano state formulate, dalla trascrizione del testo delle stesse e da un’argomentata dimostrazione della loro decisività (la quale può comunque escludersi sia con riguardo al presunto errore lamentato dalla ricorrente circa la datazione del fax, sia con riguardo alle circostanze riferite in ricorso, datate al 2002 e alla fine del 2005, che dimostrano soltanto opinioni divergenti o contrasti di natura economica sulla ristrutturazione della casa coniugale). Del resto, com’è noto, l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove e anche la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (v., tra le tante, Cass. n. 17097/2010, n. 12362/2006).La ricorrente ha censurato per incongruità e contraddittorietà l’affermazione della corte che ha ritenuto che fosse improprio il riferimento all’istituto del mobbing in ambito familiare e che nel nostro ordinamento per provocare l’allontanamento del coniuge indesiderato non sarebbe necessaria l’adozione di un comportamento di tal genere, essendo sufficiente chiedere la separazione personale, come aveva fatto il F. senza attendere i risultati del suo ipotizzato piano persecutorio. Sono necessarie alcune precisazioni.Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente) che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità (v., tra le altre, Cass., sez. lav., n. 3785/2009; anche n. 18093/2013). La nozione di mobbing è particolarmente utile per fotografare quelle situazioni patologiche che possono sorgere in presenza di un dislivello tra gli antagonisti, dove la vittima si trova in posizione di costante inferiorità rispetto ad un’altra o ad altre persone, e ciò spiega perché è con riferimento ai rapporti di lavoro che quella nozione è stata elaborata ed ha avuto applicazione.In ambito familiare, invece, vige il principio di uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi (art. 3 Cost.); l’unità familiare (art. 29 Cost.), che in passato aveva consentito di giustificare l’autorità del marito, è oggi affidata all’accordo dei coniugi che, come notato da acuta dottrina, condiziona la costituzione e conservazione del rapporto matrimoniale. La ricorrente sollecita l’applicazione della nozione di mobbing anche ai rapporti familiari tra coniugi, valorizzandone la natura di comportamento contrario ai doveri che derivano del matrimonio e idoneo a rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza (art. 151 c.c.), nei casi in cui un coniuge assuma atteggiamenti persecutori nei confronti dell’altro al fine di costringerlo ad abbandonare il tetto coniugale o ad accettare separazioni consensuali a condizioni inadeguate. Si ipotizza, in sostanza, che il comportamento del coniuge mobber integri di per sé una violazione degli obblighi di assistenza morale e materiale e di collaborazione previsti dall’art. 143 c.c., ma questa conclusione non è condivisibile.La nozione di mobbing in materia familiare è utile in campo sociologico, ma in ambito giuridico assume un rilievo meramente descrittivo, in quanto non scalfisce il principio che l’addebito della separazione richiede pur sempre la rigorosa prova sia del compimento da parte del coniuge di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio – quelli tipici previsti dall’art. 143 c.c. e quelli posti a tutela della personalità individuale di ciascun coniuge in quanto singolo e membro della formazione sociale familiare ex artt. 2 e 29 Cost. – sia del nesso di causalità tra gli stessi atti e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza o del grave pregiudizio per i figli (v., tra le tante, Cass. n. 25843/2013, n. 2059/2012, n. 14840/2006). Questa impostazione, la quale esclude ogni facilitazione probatoria per il coniuge richiedente l’addebito, neppure scalfisce (ed è anzi coerente con) il principio secondo cui il rispetto della dignità e della personalità dei coniugi assurge a diritto inviolabile la cui violazione può rilevare come fatto generatore di responsabilità aquiliana (v. Cass. n. 5652/2012, n. 9801/2005) anche in mancanza di una pronuncia di addebito della separazione (v. Cass. n. 18853/2011).Il secondo motivo del ricorso principale, in tema di affidamento del figlio, è inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse, avendo egli raggiunto la maggiore età nell’anno 2013.Venendo al ricorso incidentale del F., il primo motivo (per violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e insufficiente motivazione) riguarda il mancato addebito della separazione alla moglie, in quanto considerata responsabile di una continua e reiterata condotta aggressiva verso il marito consistita in numerose iniziative assunte in varie sedi processuali (quali la proposizione del gravame avverso la sentenza del tribunale, di un ricorso urgente nel giudizio di appello e del ricorso per cassazione in esame, nonché per avere proposto una querela nei suoi confronti, rifiutato una proposta transattiva e introdotto altra causa civile per il rimborso delle spese di ristrutturazione dell’abitazione coniugale). Il motivo è infondato in quanto basato su comportamenti del coniuge in parte diversi da quelli fatti valere nel giudizio di merito (dove il F. aveva dedotto il carattere intollerante della moglie, la sua ostilità verso la famiglia di origine del marito, l’insofferenza verso la casa coniugale) e in parte successivi alla proposizione della domanda di separazione e, quindi, intrinsecamente privi di ogni influenza ai fini della intollerabilità della convivenza e, conseguentemente, della pronuncia di addebito (v. Cass. n. 8512/2006, n. 3098/1995).Il secondo motivo dell’incidentale, che deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 155 bis c.c. e 91 e 96 c.p.c., è inammissibile, avendo la corte di appello fatto uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali, in considerazione della soccombenza reciproca, che è incensurabile in Cassazione (v. Cass., sez. un., n. 14989/2005).In conclusione, entrambi i ricorsi sono rigettati. Sussistono giusti motivi di compensazione delle spese del giudizio di legittimità, vista la reciproca soccombenza.P.Q.M.La Corte rigetta i ricorsi; compensa le spese del giudizio. In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi.