13 June 2024, Italy, Bari: Italian Prime Minister Giorgia Meloni stands next to Ursula von der Leyen, President of the European Commission, at the G7 summit. The heads of state and government from the seven industrialized nations of the USA, Canada, the UK, France, Italy, Germany and Japan are meeting in Borgo Egnazia near Bari for their annual G7 summit, hosted by Italy. Photo: Michael Kappeler/dpa

Il peso politico delle vicepresidenze della Commissione Europea

Giovedì 27 giugno il Consiglio Europeo ha approvato l’intesa sui principali incarichi dirigenziali delle istituzioni comunitarie. I capi di Stato e di governo hanno approvato le nomine della tedesca Ursula von der Leyen, riconfermata alla presidenza della Commissione, del portoghese Antonio Costa come presidente del Consiglio e dell’estone Kaja Kallas alla guida della diplomazia europea. Questo accordo ha lasciato delusa e irritata la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, che ha deciso di esprimere il proprio dissenso al momento del voto, astenendosi sulla nomina di von der Leyen e opponendosi a quelle di Costa e Kallas. Insieme a Meloni, l’unico altro leader che ha contestato l’accordo è stato il primo ministro ungherese Viktor Orbán, che ha votato contro von der Leyen, a favore su Costa e si è astenuto su Kallas.

Meloni ha commentato in maniera molto polemica questa scelta, lamentando di non essere stata coinvolta nei negoziati nonostante le elezioni dell’8 e del 9 giugno abbiano fatto emergere ECR, il gruppo dei Conservatori di cui Meloni è presidente, come il terzo gruppo al Parlamento Europeo per numero di eletti. Ma alla fine ha retto l’intesa definita dai negoziatori delle tre principali famiglie che storicamente costituiscono la maggioranza europeista: il Partito Popolare (PPE) di centrodestra, i centristi Liberali di Renew e i Socialisti di centrosinistra.

È un fatto abbastanza rilevante: è la prima volta che l’Italia non approva in Consiglio Europeo la nomina del presidente della Commissione, ed è anche la prima volta che un paese fondatore dell’Unione contesta la scelta adottata dal Consiglio. Per capitalizzare dunque il buon risultato elettorale del suo partito, e per smentire almeno in parte i commenti che la descrivono come isolata o marginalizzata in Europa, Meloni dovrà negoziare direttamente con von der Leyen per ottenere un buon incarico per l’Italia all’interno della Commissione. A differenza di Costa e Kallas, infatti, von der Leyen dovrà ottenere un voto di conferma del Parlamento Europeo a maggioranza assoluta, ovvero di almeno 361 dei 720 europarlamentari appena eletti. Popolari, Socialisti e Liberali hanno 399 rappresentanti all’assemblea; spesso, tuttavia, l’elezione della presidente della Commissione, che avviene a scrutinio segreto, è caratterizzata da una significativa presenza di ‘franchi tiratori’, cioè di singoli eletti che votano in dissenso rispetto alle indicazioni del loro gruppo.

Per questo motivo, adesso, von der Leyen deve negoziare coi vari leader di partito e coi capi dei governi per garantirsi una solida maggioranza, tra i quali c’è anche Meloni. L’obiettivo indicato da vari esponenti del governo italiano è chiaro: ottenere una vicepresidenza della Commissione. Ma questo risultato, quando pure il governo italiano dovesse raggiungerlo, non darebbe di per sé la garanzia di poter avere un peso nelle politiche che la Commissione adotterà nei prossimi cinque anni.

In un certo senso la Commissione ha sia una composizione fissa che una forma variabile. È infatti stabilito dai Trattati istitutivi dell’Unione che la Commissione sia composta da un membro per ciascuno Stato, tutti comunque chiamati a fare gli interessi dell’Unione e non quelli del proprio paese. Oltre a von der Leyen ci saranno dunque 26 commissari, ciascuno con deleghe specifiche e conseguenti prerogative. Ma all’interno di questo perimetro, von der Leyen potrà muoversi un po’ come preferisce, modellando la sua Commissione in maniera molto arbitraria. In questa sua ampia libertà deciderà anche se e quanti vicepresidenti nominare, e quali poteri affidargli.

Le vicepresidenze non hanno tutte lo stesso peso. Quelle che contano davvero sono quelle cosiddette esecutive, che tra l’altro hanno a supporto una Direzione generale in via esclusiva, e che hanno poi un controllo più o meno diretto sulle altre principali Direzioni generali (abbreviate in DG nel gergo degli addetti ai lavori). Le Direzioni generali sono strutture molto articolate composte da un capo, una decina di consiglieri e varie centinaia di funzionari che rispondono alle sollecitazioni politiche della Commissione, e si occupano dell’esecuzione concreta dei progetti dal punto di vista tecnico. Coprono vari ambiti, dalla comunicazione alla difesa passando per l’economia e gli aiuti umanitari. I famigerati «burocrati di Bruxelles», oggetto di critiche e ingiurie nella propaganda antieuropeista, sono spesso quelli che lavorano in questi uffici.

I direttori generali, cioè i funzionari che dirigono queste strutture, possono arrivare ad avere più influenza di alcuni commissari, e finiscono pure loro per essere oggetto di negoziati e trattative. Le altre vicepresidenze, quelle non esecutive, hanno una rilevanza più che altro formale e limitata: garantisce una maggiore visibilità mediatica, la facoltà di coordinare il lavoro della Commissione su alcune questioni, e poco altro.

Nella commissione uscente, per esempio, delle sette vicepresidenze, quelle esecutive erano solo tre, a cui facevano capo le tre direzioni generali. Una, con deleghe alla Concorrenza e la Digitalizzazione, era della danese Margrethe Vestager, a cui rispondeva direttamente la Direzione generale Competitività (DG COMP), guidata dal francese Olivier Guersent, e per lo più anche la Direzione generale per le Politiche digitali, guidata dall’italiano Roberto Viola. Un’altra, con deleghe al Commercio e all’esecuzione del Recovery Plan, cioè il grande piano di investimenti avviato durante la pandemia e finanziato con circa 800 miliardi di fondi comuni, era del lettone Valdis Dombrovskis, che aveva a supporto la Direzione generale del Commercio guidata dalla tedesca Sabine Weyand e controllava varie altre Direzioni generali del settore economico, finanziario e di bilancio. La terza vicepresidenza esecutiva, infine, era quella per il Green Deal e la Transizione: assegnata inizialmente all’olandese Frans Timmermans, è stata poi affidata dall’agosto del 2023 allo slovacco Maros Sefcovic. Ha il controllo esclusivo della Direzione generale all’Ambiente (DG ENV) al cui capo c’è un’altra tedesca, Florika Fink-Hooijer.

Gli altri quattro vicepresidenti, – lo spagnolo Josep Borrell, la ceca Vera Jurová, la croata Dubravka Suica, il greco Margaritis Schinas – al di là delle loro specifiche deleghe, hanno avuto un ruolo tutto sommato marginale. E anzi, spesso alcuni commissari che non hanno il titolo di vicepresidenti hanno mostrato un peso politico decisamente maggiore, perché gestivano deleghe più importanti e controllavano più o meno direttamente Direzioni generali più strategiche. Un caso emblematico, in questo senso, fu quello di Pierre Moscovici, il commissario francese socialista che nel 2014, quando entrò a far parte della Commissione guidata da Jean-Claude Juncker, decise di rinunciare al titolo di vicepresidente ottenendo in cambio il controllo esclusivo della Direzione generale agli affari Economici e finanziari (DG ECFIN), guidata allora dall’economista toscano Marco Buti.

I precedenti garantiscono al presidente della Commissione ampia libertà su che forma darle. Nella sua prima Commissione, tra il 2004 e il 2009, il portoghese José Barroso, del PPE, nominò sette vicepresidenti; furono dieci invece nel suo secondo mandato, nei cinque anni seguenti; Juncker, lussemburghese e pure lui del PPE, ne scelse cinque, ma per la prima volta indicò un vice con maggior potere, il cosiddetto primo vice presidente, indicandolo nell’olandese Timmermans.

Nel 2019, quando si ritrovò a dover comporre la sua Commissione, von der Leyen dovette gestire negoziati molto burrascosi. L’accordo iniziale era di nominare due vicepresidenti, e di sceglierli tra gli Spitzenkandidaten non eletti. Ogni famiglia europea, infatti, aveva indicato fin dalla campagna elettorale un proprio candidato alla presidenza della Commissione (in tedesco Spitzenkandidat significa “capolista” o “candidato di punta”). Alla fine a essere eletta fu von der Leyen, che non era la candidata del PPE ma che venne scelta dopo che lo Spitzenkandidat Popolare, Manfred Weber, era stato bocciato dal presidente francese Emmanuel Macron. Ne venne fuori una trattativa difficile, al termine della quale si decise comunque di rispettare l’accordo iniziale, cioè che venissero scelti come vicepresidenti esecutivi gli Spitzenkandidaten delle altre due famiglie politiche principali, e dunque Vestager per i Liberali e Timmermans per i Socialisti. Quando tutto sembrava concluso, però, il PPE pretese di esprimere anche un vicepresidente operativo, oltre alla presidente von der Leyen: e fu così che si aggiunse la carica per Dombrovksis.

Anche stavolta, secondo quanto emerge dai negoziati in corso, la base dell’accordo che von der Leyen sta proponendo ai vari leader è di garantire una vicepresidenza esecutiva a ciascuna delle tre famiglie politiche che hanno appoggiato la sua riconferma. Per quanto riguarda i Liberali, è molto probabile che per questo incarico venga proposto il francese Thierry Breton, commissario uscente con deleghe importanti sul Mercato interno e la Sicurezza informatica. Macron ha confermato  la sua intenzione di confermare Breton, con l’auspicio che gli vengano assegnate anche competenze economiche e industriali, tra cui quella molto importante sulla Difesa, e una vicepresidenza esecutiva. La candidatura di Breton sembra piuttosto consistente: sia per il ruolo importante che ha saputo ritagliarsi nei cinque anni passati, sia perché finora la Francia, che è il secondo più importante paese dell’Unione, non ha ancora rivendicato né ottenuto incarichi di prestigio nella nuova legislatura.

Anche i Socialisti sembrano avere individuato la loro candidata per una vicepresidenza, anche se i negoziati sono ancora in una fase iniziale. È la ministra alla Transizione ecologica spagnola Teresa Ribera, che il capo del governo spagnolo Pedro Sánchez ha già sponsorizzato per un incarico importante nella Commissione con deleghe proprio sull’ambiente e il green deal. Assumerebbe in sostanza le stesse competenze dell’uscente Sefcovic, compresa la carica di vicepresidente esecutiva.

Quanto ai Popolari, il governo lettone ha già espresso la volontà di confermare come commissario Dombrovskis. Non è detto però che avrà le stesse deleghe e lo stesso ruolo. La vicepresidenza esecutiva del PPE potrebbe essere in effetti attribuita a un italiano: ma significa che dovrebbe essere scelto un commissario di Forza Italia, il che sarebbe difficile da accettare per Meloni, che è capo del governo e che alle elezioni europee ha ottenuto il triplo dei voti del partito di Antonio Tajani.

Meloni, piuttosto, sembra intenzionata a ottenere da von der Leyen il riconoscimento di una vicepresidenza esecutiva per l’Italia a prescindere da maggioranze e dalle affiliazioni politiche europee. Il buon rapporto che Meloni ha saputo costruire nell’ultimo anno e mezzo con von der Leyen fa supporre che ci siano buone possibilità, anche perché von der Leyen ha già dato l’impressione di voler concedere riconoscimenti politici a Meloni su alcuni temi specifici (uno su tutti: l’immigrazione). Inoltre potrebbe aver bisogno dei voti dei 24 europarlamentari di Fratelli d’Italia per garantirsi l’approvazione del Parlamento Europeo.

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