Il passaggio che vivono le comunità umane, variamente dislocate nel pianeta e con differenti gradi di accelerazione, deve essere interpretato come una vera e propria “transizione”. Siamo di fronte non a una “semplice” crisi, ma a un passaggio che si configura come un necessario cambiamento di sistema. Questa dimensione di cambiamento che l’umanità sta affrontando, attraversa ogni struttura sociale, economica, produttiva e impatta con il grande cambiamento climatico, della finitezza delle risorse e il crollo delle biodiversità. In altre parole, il passaggio si può definire, in maniera indiscutibile, come “storico”. Ovviamente ogni nazione arriva a questa “biforcazione” con strumenti, assetti sociali, equilibri e disequilibri che sono “propri” e che amplificano (o riducono) la percezione sociale dell’impatto dei cambiamenti. Il nostro paese, tra quelli più avanzati, arriva a questo snodo con criticità più evidenti: un altissimo debito pubblico, la perdita di posizionamenti significativi nei settori strategici e, in particolare, nelle nuove catene del valore legate alle economie della conoscenza. Il divario territoriale deriva dalle politiche miopi che hanno reso il nostro paese nel Nord “avanzato”, un territorio di rami delocalizzati delle imprese tedesche e francesi con produzioni a valore aggiunto decrescente e, nel Centro-Sud, un serbatoio di riserva a cui far attingere per i processi produttivi europei. L’arrivo della stagione della pandemia ha imposto, alla governance europea, una accelerazione definitiva del processo di chiusura del trentennio caratterizzato dalle politiche monetariste di Maastricht. Nulla sarà più come prima e per motivi “oggettivi”. Le risorse che saranno attivate, attraverso il PNRR (europee o italiane che siano) devono essere indirizzate con la consapevolezza che non possono essere gestite in continuità con le logiche che hanno prodotto il quadro attuale. Serve un cambio di passo e una logica “nuova” nel ripensare il processo di industrializzazione, un ripensamento non solo in termini di capacità di investimento, ma sulla sua “qualità”. In maniera sintetica servono investimenti “intelligenti” che abbiano un respiro “strategico”. Questa nuova capacità di allocare le risorse, i capitali, deve essere accompagnata da un enorme sforzo formativo legato a recuperare un gap trentennale che vede il nostro paese, ancor oggi, fanalino di coda negli indici DESI (Digital Economy and Society Index). L’Italia, infatti, nel 2020 risulta al 25° posto su 28° rispetto ai paesi europei. Serve, dunque, un salto nella “qualità” del lavoro e questo salto non può essere affidato “solo” ad una gigantesca riforma della scuola e dell’università. Serve “sostituire le ruote in corsa” e, possibilmente, senza doverci nuovamente fermare ai box. Fondamentale, quindi, è la scelta di mettere al centro un gigantesco “piano per la formazione del lavoro” non solo orientato ad affrontare il tema dei livelli occupazionali ma a indirizzare una trasformazione del fare che sappia indicare la strada di ricomposizioni sociali, territoriali e di genere.
Sergio Bellucci