In ‘Mal’aria’ Giovanni Lindo Ferretti ci dice che la scienza non ci salverà

Scrive Giovanni Lindo Ferretti, e gli spiace farlo in mezzo a tanto dolore, che lassù sui monti dove vive è il paradiso terrestre. Percepisce però una sciagura incombente. «Sono giornate di una dolcezza allibita, d’improvviso una tristezza con connotazioni cosmiche le avviluppa, prepotente l’inquietudine s’addensa e manca l’aria: qualcosa non torna, lo sentono gli animali, lo sento anch’io».

Lo scrive su Doppiozero a cui affida una nuova canzone che arriva poco più di un mese dopo Ora. S’intitola Mal’aria ed è più articolata di Ora, anche se la condizione di isolamento rende difficile per Ferretti, che musicista non è, registrare canzoni dalla struttura tradizionale. Sceglie allora la forma del frammento, del collage digitale, della quasi-canzone in cui le musiche di Luca A. Rossi, parti recitate, interferenze elettroniche s’incastrano in un flusso sonoro suggestivo prodotto in un «rimpallo di e-mail, tracce audio, telefonini, iPad e frustrazioni».

Scrivere il testo di Mal’aria è il modo scelto da Ferretti per reagire alla tristezza che tutti sentiamo. «Di questo testo avrei voluto farne canzone, da saltare e sbracciarsi e sudare sputacchiando (ops!) ne è uscita una cosa malsana giusto specchio di giorni in cui il lavoro a distanza, da casa, viene imposto e osannato ma ci sono cose che non si possono fare in solitudine né da postazione: l’amore o anche semplicemente certe canzoni». Il medium diventa almeno in parte il messaggio, il carattere musicale frammentato di Mal’aria ci dice qualcosa della condizione in cui viviamo.

Ad ascoltare distrattamente Mal’aria uno si fa l’idea che Ferretti sia uno di noi. E che, come noi, guarda il Papa in TV, sente la primavera e fiuta l’aria malsana, osserva perplesso “emoticon I like e pandemia”, vede le conferenze stampa di Conte, compresa quella relativa alla cosiddetta fase 2 – la canzone è quindi molto recente. Scrive Ferretti nel testo che l’accompagna: «S’addensano livide tonalità: al telegiornale il presidente del consiglio legifera di dinamiche familiari: sì a fugaci saluti ma niente party (!!) in casa, 15 al cimitero ma le chiese ben sigillate. Utenti, pazienti, assistiti, con autocertificazione. Eccitati, rassicurati, protetti, dagli esperti. Nelle mani di un pool, una task force, un breaking for exit fase 2.0… niente party in famiglia mi raccomando».

Però Ferretti non è come noi. Evoca immagini apocalittiche (“la Torre di Babele accelera”), cita un canto liturgico (“per i miseri implora perdono, per i deboli implora pietà”), intona persino Vecchio scarpone. Ma soprattutto dice che lui non si prostra alla scienza a cui stiamo tutti quanti guardando per essere salvati. Ferretti non obbedisce ai suoi dogmi stabiliti in vitro. Perché, canta, alla scienza “non interessa ciò che non comprende” e invece è questo mistero che dà un senso alla vita: “il cielo e la terra, le cose visibili ed invisibili, in breve vita, fragile, vibrante di mistero, irripetibile”.

«La scienza è considerata da alcuni come una panacea, dimostrata dai risultati importanti del secolo scorso. In effetti, i suoi innumerevoli progressi sono stati talmente determinanti e rapidi da avvalorare, apparentemente, l’opinione secondo la quale la scienza potrebbe rispondere a tutte le domande circa l’esistenza dell’uomo e anche alle sue più alte aspirazioni». Questo però non lo dice Ferretti. Lo scriveva Joseph Ratzinger.

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