In Sicilia solo un’altra parola vale quanto questa: perché un “suca” è per sempre

Siamo ormai entrati in pieno nel clima natalizio, in realtà già da metà settembre cominciavano a vedersi gli addobbi nei negozi, e ormai le discussioni cominciano a vertere su questi argomenti: “Che cucini?”, “Ma chi c’ha rialare a chiddu?”, “Ma su mierita?”, “Agghire a muntare albero e addobbi…ra camurria” e altre cose così. Così l’atmosfera plumbea dei giorni passati mi ha fatto ripensare ad un episodio scolastico.

Era un lontano e piovoso dicembre del 1994, MTV trasmetteva ormai da un bel pezzo il famoso Unplugged dei Nirvana, a lagnusia ni manciava l’ossa, le vacanze natalizie stavano per approssimarsi e nelle ultime due ore il professore di laboratorio aveva dato forfait.

Stavamo già organizzando i tavoli per il torneo di briscola in 5, quando anticipato dal tipico odore di sigaro all’anice entrò in classe il prof. La Barbera, immolato al Dio dell’insegnamento per fare da supplente a noi canazzi i bancata.

«I carte un passano vero picciotti? Vabbeh quasi quasi ne approfitto per fare l’ultimo compito in classe dell’anno…».

Ed ecco che dall’ultimo banco Ilardi sibilò un «SSUUUCCCAAAA» che normalmente non si sarebbe udito, ma per quella strana ed oscura congiunzione astrale per la quale a volte cala un silenzio biblico, quel “suca” fu udibile come l’abbannìo di un lapino i patate rintra a chiesa ra Martorana.

Il prof. La Barbera non si scompose più di tanto. S’assettò ‘nna seggia ra cattedra, appuiò la schiena e con flemma britannica tolse gli occhiali per pulirli in modo millimetrico, il tutto nel silenzio più totale.

Finita la pillicusa operazione, il prof riprese la parola «vabbeh è Natale… sono buono e vi grazio…. Ilardi?» e quello rispose «se professò…»… «comunque… forte ca pompa a mia e o duca, o duca un c’è chiù e ma suchi sulu tu!».

Scaturirono circa 25 minuti di applausi e fischi che fecero accorrere anche il signor Ciulla, il bidello, che fu tranquillizzato da un gesto del prof.

Dal sacchetto di “Grande Migliore” arancione che aveva portato con sè uscì fuori un pandoro ed un panettone ed esordì dicendo che ora n’attuccava assupparici una bella divagazione proprio sul termine “suca”.

«Eh sì picciotti, picchì a voi vi pare che un suca è un suca e basta, ma dietro c’è di più… molto di più!». Il suca è tutto e nulla, indefinito, è un gesto di stizza, è un invito, è un modo di esprimere dissenso, “sssuuucccaa!”, goliardia, sfottò e sminuizione, “ma va suca va…”, un modo per chiudere una discussione, “ma ti piace la frutta?”,”sì…”, “e allora va sucate un pruno va…”, fastidio, “ma picchi ni l’hanno a sucari pa supicchiaria?”, sensazione di superiorità individuale o collettiva “ma/nna ponnu solo sucari!”.

Solo un’altra parola in Sicilia ha tutta questa versatilità, ovvero minchia, ma con significati reconditi diversi. Non so se ci avete mai provato, ma in un momento ri maluchiffari io ho provato a cercare la parola suca su Google, e mi sono uscite 349.000 voci diverse, anche estere, che mentre leggete saranno sicuramente aumentate.

Il “suca” in Sicilia, soprattutto a Palermo, è intimo, sentito, insito dentro ognuno, u senti rintra. Se date ad un siciliano una penna e gli dite di scrivere una parola, quello metterà nero su bianco un poderoso suca ed è quello che deve aver pensato quel genio che nel 2015, in seguito ad una copiosa nevicata che investì Palermo, “scrisse” sulla neve un SUCA gigantesco in un spiazzo in via Zancla vicino l’ospedale Civico.

La foto di quel messaggio di appartenenza e comunicazione sicula divenne così famosa da essere persino riportata da alcune testate giornalistiche nazionali, tanto per dire che insomma, un Suca è per sempre!

D’altronde possiamo trovare traccia del “Suca” nel dizionario del dialetto siciliano Grifo-Lecce risalente al 1883, che lo collega alle parole “sucasimula” ovvero persona debole e mingherlina e “sucasarda”, cioè uomo taccagno e spilorcio, uno ca cura.

“Suca” alla fine non è un disfemismo recente, ma affonda la sua nascita nella storia sicula e pare che fosse usato anche per esprimere il fastidio siculo nei confronti di alcuni dominatori poco graditi come gli Angioini o i Borbone, al pari degli striscioni apparsi anni addietro, durante una visita dell’attuale Ministro delle Infrastrutture, che comunicavano senza mezze misure un “Salvini suca”, talmente evidente da essere oggetto delle, un po’ esagerate, attenzioni delle forze dell’ordine.

Fulvio Abbate nel suo libro “Zero maggio a Palermo” scrive, “…suca…è la scritta che a Palermo viene tracciata su ogni parete bene in vista. La scritta di benvenuto. C’è chi la maschera con imbarazzo aggiungendo un po’ di vernice dello stesso colore, ma inutilmente, perché suca ricompare il giorno dopo”.

Si capisce che suca ha una sua anima, una vita propria, è come un’entità senziente che pare non abbia bisogno di supporto umano per comparire ove occorre.

Se avessimo un nostrano Batman, non avrebbe un pipistrello come simbolo, ma un cubitale “suca” capace di redimere tutti i peggiori torti. Ma, ammesso e non concesso che il nostro supereroe fosse n’anticchia schitifignuso, potrebbe optare per un 800A al posto del suca, perché il nostro amato epiteto si presta a trasformazioni di ogni tipo.

Basta aggiungere una S capovolta all’inizio, chiudere la U, chiudere la C e lasciare invariata la A per avere quelle che ad un occhio inesperto potrebbe sembrare un’innocua sigla, ma che invece raccoglie tutta l’essenza del suca!

Se andate alla Cala, potrete trovare un natante nominato 800A e chissà i cianchi che s’app’a fari il proprietario quando “stranieri” gli hanno chiesto cosa significasse tale sigla. Ma lo sfinnicìo siculo non si ferma alle sigle, così diamo il via agli acronimi tipo Società Unica Caramelle Amenta (in cui amenta è l’unione di a-menta, ovvero alla menta), oppure Società Unica Caramelle Anice.

Poi abbiamo anche Sei Un Caro Amico, Si Un Cristiano Attassato o, per andare al tema gastronomico a noi tanto caro, potremmo chiedere ad un barista se “sti arancine sucacarne?”.

Ma il siciliano, al pari del prof. La Barbera, depositario di Sicura Unica Capacità Assertiva, ci fece edotti anche di tutta una serie di risposte possibili ad un suca lanciato a tipo timpulata di prima.

“Suca” “a mia e Claudio Villa, Villa un c’ì chiù e ma suchi solo tu!” oppure “suca” “a mia e o duca” che pare quasi avere un richiamo a quando i duchi in Sicilia erano padroni e protettori delle persone che erano al loro servizio, a voler intendere “ma suchi a mia e u patruni!”.

Ma il titolo nobiliare dà origine ad altra risposta: “a mia e u duca, a tia u trunzu, a mia a lattuca” dove u trunzu è quello della malafiura fatta a causa della risposta, il fatto che chi risponde s’ammucca la parte buona dell’ortaggio lasciando u trunzu e, ovviamente, il palese richiamo fallico “te ca, appuiati a stu trunzu!”

Famosi pure i cori di rimando allo stadio tra curva nord e sud “SUCA” “FORTE” “CHIÙ FORTE” “CA POMPA” “CHI MANO QUANNU VULITI” con il gran finale “NA PUTITI SOLO SUCARI”, e giù applausi.

Ma il prof. La Barbera nn’avia a lassari almeno una perla letteraria, così nni cuntò che suca potrebbe derivare dal latino succulare, a sua volta derivante da sucus (succo) che, perdonate l’estrema volgarità, rimanda all’idea del liquido seminale derivato dall’atto della fellatio.

E tuttavia, siccome i tuicchi in qualche modo c’entrano sempre, forse e ribadisco FORSE, si potrebbe cercare l’origine del termine nell’antico arabo sag ah alek che indica uno stato d’animo o sensazione che può variare dalla pigghiata pu culu all’umiliazione, dal divertito all’offesa vera e propria.

In ogni caso non si dica mai che noi siciliani non siamo gente di cuore e lo siamo anche nel suca, regalando ai potenziali e improvvisati lettori un sentito, amabile, caloroso, generoso “Suca chi legge”.

Fonti: “filosofia del suca” di Francesco Bozzi, “SUCA storia e riti di una parola” di Roberto Sottile.

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