Sono oltre 758.372 le prestazioni pensionistiche messe in pagamento dall’Inps (e dall’ex Inpdap) da più di 37 anni: è quanto emerge dall’Osservatorio, a cura del Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali, sulla durata media delle pensioni italiane decorrenti dal 1980 al 2018 per numero, tipologia, genere e gestione.
Nel conto ci sono tutte le pensioni previdenziali: vecchiaia, anzianità, prepensionamenti, superstiti e invalidità. Sono esclusi gli assegni di invalidità civile e le altre forme di assistenza.
Quelle evidenziate dall’ultimo Osservatorio sulla spesa pubblica sono cifre destinate a far discutere, se si considera che prestazioni corrette sotto il profilo attuariale dovrebbero durare in media 25 anni. “La durata media delle prestazioni erogate dal 1980 o prima – si legge – è di circa 38 anni per i dipendenti del settore privato e, nel caso del settore pubblico, rispettivamente di 41 anni e 41,5 anni per lavoratori e lavoratrici: prestazioni corrette sotto il profilo attuariale non dovrebbero superare i 25 anni”, dove corrette sotto il profilo attuariale significa semplicemente che il sistema resterebbe in equilibrio considerati i versamenti di chi lavora.
Un’attenta analisi delle decorrenze pensionistiche – prosegue lo studio – evidenzia un sistema previdenziale reso oggi eccessivamente rigido dalla riforma Monti-Fornero, ma sin troppo generoso tra 1965 e 1980: è saltata la relazione contributi e prestazioni, con effetti che gravano tuttora sul bilancio del welfare.
“Ci vorranno anni per ridurre le anomalie che tuttora appesantiscono il bilancio del welfare italiano” spiega Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali. Nel nostro Paese sono in pagamento 3.806.297 prestazioni che hanno superano la durata di 25 anni, pari al 24% circa dei pensionati (circa 16 milioni nel 2017, ma alcuni pensionati hanno più assegni). “Si potrebbe dire – dice ancora Brambilla – che è una sorta di reddito di cittadinanza ante litteram, anche se mascherato da pensione”.
Tra le categorie maggiormente favorite le donne, cui spetta l’80% delle prestazioni in pagamento da 37 anni e più e il 67% di quelle oltre i 25 anni; pensioni di invalidità, superstiti e vecchiaia le tipologie di prestazioni prevalenti.
A gennaio 2018, nel settore privato, risultano ancora in essere “circa 250mila pensioni dovute a prepensionamenti avvenuti anche con 10 anni di anticipo rispetto ai requisiti allora vigenti: numeri che evidenziano l’uso particolarmente intensivo del prepensionamento fatto sino al 2002 e che in Italia, a differenza di quando non accada in altri Paesi europei, gravano appunto sul bilancio pensionistico anziché essere considerati delle vere e proprie misure di ‘sostegno al reddito’”. “Analoga la situazione delle invalidità previdenziali: all’1 gennaio 2018 ne risultano in pagamento oltre 948mila (il 6,8% del totale pensioni), di cui con oltre 37 anni ben 328.000 e con 25 e più anni 490mila”, aggiunge.
“Meritevole di particolare attenzione, infine, il caso della pubblica amministrazione – spiega ancora l’Osservatorio – che ha potuto beneficiare di norme estremamente favorevoli per andare in pensione anticipatamente negli anni Settanta-Ottanta e fino ai primi anni Novanta, quando la riforma Amato (1992) e la successiva riforma Dini (1996) posero fine al fenomeno delle ‘baby pensioni’, maturate cioè a fronte di pochi anni di contributi (dopo 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di servizio utile per le donne sposate o con figli, ad esempio)”.
L’Osservatorio Itinerari Previdenziali fornisce, dunque, dati utili anche a sfatare alcuni luoghi comuni, come quelli relativi all’età di pensionamento: “Spesso gli italiani si lamentano perché le età per andare in pensione sono (in alcuni casi anche molto nettamente) più elevate che in passato e aumentano ogni due anni. I motivi, però, sono essenzialmente due:viviamo di più, ed è una bella notizia, e dobbiamo rispettare il patto intergenerazionale mantenendo il sistema in equilibrio. Senza legare l’età pensionabile alla speranza di vita, i rischi sono proprio quelli che emergono analizzando questa vasta schiera di pensioni erogate molti anni fa e ancor oggi in pagamento: lavoratori mandati in quiescenza a età troppo giovani, ‘baby pensioni’ come quelle del pubblico impiego, casi ‘limite’ di prepensionamento, pensioni di anzianità concesse prima dei 50 anni e requisiti troppo permissivi per ottenere le prestazioni di invalidità e inabilità”.